Nei tanti anni di lavoro nell’ambito delle separazioni non ho potuto fare a meno di notare quanto, seppure ciascuno con la propria storia personale, i genitori di oggi siano tutti accomunati dallo stesso elemento: il tentativo (più o meno conscio) di sottrarsi al conflitto, delegando ad altri il compito di gestirlo (giudici, avvocati, assistenti sociali, ecc.) per sentire meno il peso delle responsabilità.
E a pensarci bene, non è poi così strano. Del resto, si sa, tutti noi siamo dotati di meccanismi di autoprotezione con cui ci difendiamo dagli eventi traumatici che possono compromettere la nostra serenità e che pertanto troviamo conveniente escludere dall’attività pratica e sensibile delle nostre giornate. In altre parole, tendiamo a rendere inconscio il contenuto mentale inaccettabile. Escludere, però, non equivale a risolvere. Il conflitto è un aspetto necessario e vitale della relazione. Anzi si potrebbe dire che ne è parte integrante. Nel conflitto siamo obbligati a considerare un punto di vista diverso dal nostro e ad ampliare il nostro campo di comprensione della realtà. Piuttosto che evitarlo, sarebbe quindi opportuno imparare ad attraversarlo, in modo da riuscire a mantenere la relazione anche quando non ci si trova d’accordo, soprattutto in presenza di figli.
Fin dalla sua nascita, la mediazione familiare è stata considerata lo strumento principe per la realizzazione di tale scopo. Tuttavia, rispetto ad altri Paesi, l’Italia è in fortissimo ritardo sia nel riconoscerla che nel ricorrervi. Dobbiamo allora chiederci perché da noi funzioni molto meno che altrove.
La risposta risiede unicamente nell’equivoco sul principio di volontarietà dell’accesso.
Facciamo alcune rapide considerazioni in proposito.
Primo. In Australia, California, Norvegia e Finlandia la mediazione è obbligatoria per legge. In Argentina, Brasile, Colombia e Slovenia lo è per tutti i tipi di controversie, non solo quelle familiari. In Belgio, Francia e Spagna, pur non essendo concepita come tale, è soggetta a forte sollecitazione da parte dei tribunali. In Inghilterra e Norvegia, infine, dev’essere obbligatoriamente suggerita dagli avvocati per poter poi essere anche imposta dal giudice.
Secondo. La volontarietà come presupposto di accesso, a cui si fa riferimento negli Stati Uniti e in Canada, è pressoché fittizia, perché in questi Paesi il rapporto totalmente asimmetrico tra i costi della mediazione (inesistenti, in quanto coperti da fondi pubblici) e quelli giudiziari (quantificabili in non meno di centomila dollari a coniuge) la rende una scelta praticamente obbligata. Stesso discorso vale per i servizi disponibili: da un lato la mediazione, strumento di elezione in ambito familiare, dall’altro il resto (arbitrato, conciliazione, parere dell’esperto, ecc.), considerati meno adatti.
Terzo. In Italia la mancata affermazione della mediazione familiare, oltreché condizionata dal costo non eccessivo dei giudizi, va a braccetto con una certa cultura giuridico-sociale, caratterizzata da garantismo e individualismo, che sposta ogni ragionamento sul piano del tornaconto personale. Così un po’ tutti tirano l’acqua al proprio mulino: gli avvocati nel timore di perdere clienti, i mediatori unicamente abituati a lavorare con coppie facili e gli stessi genitori, ciascuno dei quali si rivolge direttamente al tribunale per rivendicare di essere migliore dell’altro.
Ecco allora che il mio auspicio è che anche in Italia la mediazione familiare diventi obbligatoria, come la scuola. Se questa non lo fosse, non esisterebbe bambino o adolescente che la preferirebbe al gioco. Quello della volontarietà è un presupposto corretto che, tuttavia, implica una chiara assunzione di responsabilità nei confronti dei figli. E in un Paese come il nostro, in cui i genitori hanno smarrito il senso del loro ruolo, non può funzionare. Occorre quindi necessariamente (ri)educare. E l’educazione è perlopiù costrizione.
Al riguardo sottoscrivo appieno le dichiarazioni rilasciate dall’on. Michela Vittoria Brambilla a margine dell’incontro pubblico “Dal conflitto al rispetto, verso una cultura della mediazione”, recentemente organizzato dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza alla Camera dei deputati: “Da noi la crisi familiare trova quasi sempre sbocco in tribunale. In altri Paesi non è necessariamente così, perché la mediazione familiare è incoraggiata od obbligatoria prima di ricorrere al giudice. Penso che dovremmo seguire le migliori pratiche europee (…). Ridurre e controllare la conflittualità dei genitori in una separazione vuol dire contenere il trauma al quale i figli sono inevitabilmente esposti”.