La notte del 7 sul 8 maggio, a Torino, nel quartiere Mirafiori, davanti a una chiesa, un camper pieno di “zingarelli”, piccoli e addormentati prende fuoco. Si sente la frenata di una macchina e subito dopo un botto. La mamma, fortunatamente ancora sveglia prende i bambini e li mette in salvo prima che il camper bruciasse completamente. La gente, gli abitanti del quartiere escono per strada, guardano il camper in fiamme, la famiglia scioccata con bambini spaventati. Filmano con telefonini, si dividono tra chi ride e chi è scontento dell’esito provocato dalla Molotov: “Dovevano bruciare!”
La famiglia scappa e si ripara presso i parenti fuori città, la stampa tace, le istituzioni tacciono, la polizia immediatamente parla di una faida interna (ipotesi per me non plausibile in questo caso). Asgi, un piccolo barlume di civiltà, assiste la famiglia nel fare la denuncia. Una ordinaria storia della “vita di zingari”! Fino a dove arriva la nostra memoria collettiva, c’è sempre stato chi ci voleva bruciare. A qualcuno è andata anche piuttosto bene, ne ha bruciati più di mezzo milione durante la Seconda guerra mondiale.
Chi è peggio? Il vigliacco che tenta di uccidere una famiglia inerme gettando la molotov sul camper in cui dormano tre adulti e quattro bambini piccoli, oppure i “cittadini” che guardano, filmano, ridono e commentano: dovevano bruciare!? Il primo è un criminale che si sente spalleggiato dai politici che per anni hanno istigato l’odio contro rom e sinti, i secondi sono quelli che hanno permesso a fascisti e nazisti di prendere il potere e provocare il più grande abominio dell’umanità. Entrambi sono tornati, i vigliacchi che colpiscono gli inermi e i vigliacchi che applaudono, sono tra noi nelle nostre città, impuniti e protervi fanno della loro vigliaccheria una bandiera. Chi tace o lascia correre, cittadini e istituzioni, arma le mani che buttano le Molotov.
Al presidente della Repubblica
Presidente,
migliaia di famiglie in Italia, tormentate da continui sgomberi e persecuzioni, dormono nei camper, e girano per le città italiane piene di odio nei loro confronti, le città che li usano come capri espiatori per tutti i problemi economici e sociali che le affliggono. La nostra comunità non è in grado di garantire a queste famiglie, più povere e più fragili tra noi, protezione e sicurezza. Lo chiediamo a lei, allo Stato italiano: se non è in grado di risolvere i problemi di inclusione sociale, almeno garantisca la sicurezza ai nostri bambini.
Alla sindaca di Torino Chiara Appendino
Cara sindaca,
si è dimostrata sensibile ai diritti e alla diversità. Senza entrare nel merito delle politiche per i rom e sinti, assurde e retrograde, della sua giunta, mi limito a esprimere disprezzo nei confronti di un amministratore, che è donna e mamma, che in un caso come questo non si adopera nemmeno nell’aiutare, neppure con una coperta, una famiglia che ha perso tutto. Se il fascista fosse arrivato un po’ più tardi, quando la mamma dei bambini già dormiva, e fossero tutti morti, forse allora l’avremmo vista in prima fila al funerale, commossa davanti alle telecamere, ad esprimere il dolore della sua amministrazione?
Ai giornalisti
Cronisti,
perché? Perché questa notizia non è degna della vostra illustre attenzione? Perché non è degna di visibilità? Lo considerate una cosa normale? O giustificata? O pensate che ormai a pochi importa che qualche “zingarello” rischi la vita per mano di filofascisti? Per voi vale di più uno dei tanti bulli di periferia che però in questo caso si chiama Casamonica (e, come tutti bulli, non ama i giornalisti) del tentativo di uccidere sette persone inermi? Quanti roghi di rom e sinti vi servono perché non rimangano fatti di cronaca marginali, ma testimonianze di una persecuzione razziale sulla quale interrogarsi? Capisco, bisogna dare la notizia giusta, quella che piace alla gente, quella che piace ai politici… Non è così?
Ai vigliacchi
A chi è dispiaciuto che anche gli zingari non sono bruciati lì, davanti a una chiesa; a chi ha riso del terrore e del pianto di zingarelli. A voi, vigliacchi, non ho niente da dire.