Dopo il pestaggio del contabile della 'ndrangheta condannato nel processo Pesci, cresce la tensione tra i protagonisti del primo maxi processo contro la mafia in Emilia Romagna. Il 15 maggio inizia la requisitoria finale nell’aula bunker di Reggio Emilia
I collaboratori di giustizia sono molto preoccupati. Uno di loro, il contabile della ‘ndrangheta Paolo Signifredi, condannato a cinque anni nel processo Pesci contro la cosca Grande Aracri in Lombardia, è stato aggredito e riempito di botte sotto casa da tre sconosciuti finendo all’ospedale. Appresa la notizia il pentito Antonio Valerio, pedina fondamentale per l’accusa al processo Aemilia, ha dichiarato in aula di sentirsi minacciato da altri due imputati, Antonio Crivaro e Alfonso Paolini. Contemporaneamente il legale del più importante collaboratore della ‘ndrangheta crotonese, Angelo Salvatore Cortese, chiede alle Direzioni Antimafia garanzie per la sicurezza del proprio assistito e della sua famiglia.
Le possibili falle del sistema di protezione fanno paura e a pochi giorni dalla requisitoria finale nell’aula bunker di Reggio Emilia sale la tensione tra i protagonisti del più grande processo contro la mafia mai celebrato nel nord Italia.
Antonio Valerio, collegato in video conferenza, ha chiesto la parola al giudice Francesco Maria Caruso nell’ultima udienza di martedì 8 maggio, per invitare più volte il collegio giudicante a non sottovalutare le minacce lanciate dagli imputati a piede libero: “Signor Presidente, io mi sento minacciato dalle dichiarazioni nelle scorse udienze fatte sia da Antonio Crivaro che da Alfonso Paolini”.
Entrambi debbono rispondere dell’associazione di stampo mafioso ma il primo, stando a Valerio, è salito di grado nella ‘ndrangheta dopo gli arresti del 2015 assumendo un ruolo con “grande spessore criminale”. Il secondo è indicato dalle indagini e dai collaboratori come uno dei volti presentabili della cosca che apriva le porte nei salotti buoni di Reggio Emilia e dialogava con uomini della Questura a cui faceva e da cui riceveva favori. Il pentito Salvatore Muto lo ha accusato di avere aiutato Berlusconi (che nega di conoscere Paolini) a trasportare contanti all’estero al tempo di tangentopoli.
Spiega Valerio: “Crivaro ha minacciato a parole Salvatore Muto (altro collaboratore di giustizia), e si è rivolto a me dicendomi nella sue dichiarazioni in aula: ‘impara a parlare’. Il Tribunale non trascuri questo particolare, perché ‘impara a parlare’ è una minaccia vera e propria. E’ un messaggio con significato ‘ndranghetistico, una minaccia come quella che io feci arrivare a Gaetano Blasco: ‘impara a camminare’, tanto che lui scappò in Germania”.
Un’altra minaccia simile a parti invertite la rivolse lo stesso Antonio Valerio a Crivaro: ‘quando parli con me sciacquati la bocca’. Ora invece è Alfonso Paolini che dice mentre depone: ‘quando parlate di mio padre sciacquatevi la bocca’ e Valerio non ha dubbi: “E’ una minaccia, e minacciosi sono gli atteggiamenti che tengono in aula quando si mettono di fianco agli avvocati in quelle pose plastiche. Ostentano il loro status criminale, si sdraiano, si stravaccano, e quello è un senso di prepotere: sono delle vere e proprie minacce palesi”. Poi ribadisce la sua convinzione: “Il tribunale non trascuri questi particolari che sembrano di poco conto ma sono importanti”.
Con la preoccupazione che deriva dall’aggressione a Signifredi vive in questi giorni anche un altro collaboratore di giustizia: Angelo Salvatore Cortese, uomo di fiducia di Nicolino Grande Aracri fino ai primi anni Duemilia, unico di tutta la famiglia cutrese oltre al boss a possedere la ‘dote del Crimine’, uno tra i gradi più alti nella scala della ‘ndrangheta. Da quando iniziò a collaborare nel 2008 è una spina nel fianco della mafia calabrese per le sue conoscenze e per l’eccezionale memoria che ha messo a disposizione dei pubblici ministeri di mezza Italia. E’ il ricercato numero uno della ‘ndrangheta ma la sentenza in questo caso è già scritta e non si tratta di botte o fratture. E’ una sentenza di morte. Nicolino Sarcone e Alfonso Diletto, due capi della cosca reggiana, lo volevano uccidere già nel 2004 secondo Valerio. Sono stati condannati entrambi nel rito abbreviato di Bologna: il primo a 15 anni, il secondo a 14 anni e due mesi di carcere.
“Lo volevano uccidere in un suo cantiere attirandolo con una scusa, ma la verità è che Cortese non era così scemo, così leggero da andare in casa del lupo senza accortezze. Anche Roberto Turrà fu incaricato di ucciderlo, e invece si legò a Cortese e fecero azioni insieme, perché Cortese era un personaggio e probabilmente sapeva che stavano progettando qualcosa contro di lui. Poi uscì Nicolino Grande Aracri che voleva dare una dimostrazione, di poterlo ammazzare anche se era in una località protetta, perché in quel momento era solo Cortese il collaboratore che poteva disturbare realmente Grande Aracri. Cercò i suoi parenti e dette l’incarico tra il 2011 e il 2013 allo zio di Cortese, Peppe Procopio detto Chiricò, e poi a suo figlio Salvatore, a cui diede il ruolo di capo a Capo Colonna per invogliarlo. Ma Angelo Salvatore Cortese è ancora vivo, i fatti sono questi”. E’ vivo ma sa cosa rischia assieme ai famigliari; per questo il suo avvocato si è rivolto alle Direzioni Distrettuali Antimafia e alla DNA di Roma, oltre che al Servizio Centrale di Protezione, per chiedere garanzie e tutela.
La tensione è palpabile anche perché non è chiaro chi avesse più interesse a intimidire Signifredi e non è chiaro perché lo abbiano solo picchiato. La vittima dell’agguato avvenuto il 18 aprile è un commercialista di 53 anni residente a Parma che dopo gli arresti di Mantova aveva scritto un falso memoriale ispirato da Antonio Rocca detto King Kong, grezzo e violento sedicente capo della cosca d’oltre Po, per depistare le indagini. Smascherato in 24 ore, aveva poi deciso di collaborare seriamente ed ora è un tassello importante non solo per le indagini sulle attività della ‘ndrangheta al nord. E’ a processo per una maxi frode da 130 milioni di euro che nell’arco di dieci anni è passata per competenza da San Marino a Ferrara a Bologna, approdando infine al tribunale di Reggio Emilia. Una ventina gli accusati di aver costruito e sfruttato un sistema di falsa documentazione nella compravendita dell’acciaio che ricalca straordinariamente con società cartiere e triangolazioni in paradisi fiscali le truffe carosello svelate da Aemilia. Una “associazione a delinquere finalizzata alla frode fiscale”, che coinvolge importanti imprese: Ravani Acciai di Ferrara, Predieri Metalli di Reggio Emilia, Efinox srl di Brescia, Profilglass spa di Fano, Arena Acciai srl di Verona, BCM srl di Modena. Personaggio principale dell’associazione secondo l’accusa è Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo e teste fondamentale al processo Stato mafia di Palermo dove è stato condannato nella recente sentenza a otto anni di galera. Attorno alla truffa dell’acciaio Cosa Nostra e ‘Ndrangheta si sono quindi incontrate secondo i pm e assieme hanno alimentato gli appetiti di rispettabili imprenditori del nord. Forse le botte a Signifredi erano un messaggio per tanti altri: zitti o sappiamo dove venirvi a cercare.