Il giornalista, ucciso il 5 gennaio 1984, combatté a Catania con pervicacia ed intelligenza la mafia e il suo silenzioso propagarsi prima di tutto tra le istituzioni politiche ed economiche ben oltre l’isola. Battaglia giornalistica, intellettuale, umana, a cui il cronista, interpretato da un impeccabile Fabrizio Gifuni, aggiunse involontariamente anche un pizzico di indomabile e acuta spregiudicatezza
Una macchina da scrivere, un giubbotto di pelle nera, un rumore di passi che si allontana. Pippo Fava rivive magistralmente nelle quasi due ore di Prima che la notte. Film per la tv che Rai1 programmerà il 23 maggio 2018 in prima serata. È da quelle tracce finali, impronte indelebili di un giornalista indomito e scomodo, da quella manciata di minuti che precede il suo omicidio compiuto da mani mafiose – il 5 gennaio 1984 – che il regista Daniele Vicari riannoda memoria e storia, sintesi finzionale ed esempio morale degli ultimi quattro anni della sua vita. Protagonista che ad inizio anni ottanta, in Sicilia, a Catania, combatté con pervicacia ed intelligenza la mafia e il suo silenzioso propagarsi prima di tutto tra le istituzioni politiche ed economiche ben oltre l’isola. Battaglia giornalistica, intellettuale, umana, a cui Fava aggiunse involontariamente anche un pizzico di indomabile e acuta spregiudicatezza, propria degli uomini di grande cultura e sapere, irrimediabilmente investiti di una sorta di sacrificio etico a mo’ di esempio per la collettività. Un po’ come un’altra vittima di mafia, quel Peppino Impastato immortalato ne I cento passi di Marco Tullio Giordana, nelle scorse ore ricordato a quarant’anni dalla sua morte, sempre da mani mafiose.
Pippo Fava (un impeccabile Fabrizio Gifuni) è il direttore del quotidiano Il Giornale del Sud (nel film tv ribattezzato Il Giornale del Mezzogiorno) e del mensile I siciliani, fogli roventi su cui si stampò per giorni, mesi e anni, la dirompente verità sulla presenza della criminalità organizzata in una Catania sotto l’egida del clan Santapaola che la vulgata generale dei governanti voleva pulita. Lo scontro tra voce libera della stampa e il torbido intrigo di politica e potere economico/finanziario non è retorica da progressisti nostalgici. Bensì un pezzo limpidamente puro e ancora drammaticamente sanguinante di storia patria. E Vicari lo affronta come ha sempre avvicinato, vissuto e rielaborato le vicende di esseri umani tra i più coraggiosi e defilati dai riflettori della cronaca facile. Vuoi che fossero le persone comuni massacrate a Genova dentro le scuole Diaz durante il G8 (Diaz, don’t clean up this blood), vuoi che fosse una normale barista che muore straziata dal carico disumano di lavoro quotidiano (Sole, cuore e amore), Vicari aggiunge alla sua galleria di uomini comuni quel Fava che ancora prima di sbattere la testa contro al muro dell’omertà mafiosa fu scrittore, drammaturgo, sceneggiatore per il cinema.
E se Gifuni, tra i migliori attori italiani ancora in circolazione, recita disinvolto, mimetizzandosi alla Volonté con timbro e cadenza siculo-orientale (scordatevi Marinelli per il genovese De André), vestendo letteralmente i panni, abitando ogni centimetro di stoffa di Pippo Fava, Vicari e i co-sceneggiatori Michele Gambino (collaboratore di Fava), del figlio di Pippo, Claudio, e di Monica Zapelli (insieme furono nel ’91 co-sceneggiatori de I Cento passi) ne tratteggiano una figura che si staglia letteralmente al di sopra della folla silente, scolpendo la versione di un cowboy che sa fare male con la logica semplice delle parole e grazie a un senso di giustizia innato. Quando Fava fonda il suo quotidiano fa mettere nero su bianco un contratto di autonomia ed indipendenza rispetto ai voleri dell’editore, concetto che ribadirà in una lettera pubblicata contro i suoi padroni, rei di aver sabotato una prima pagina in cui si mostravano le radici mafiose di un attentato omicida. “Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo”.
Prima che la notte pulsa poi sulle note di Call me e I fought the love fuse nella vibrante colonna sonora “d’epoca” di Theo Teardo; come sulla scia di una redazione (Riccardo Orioles, lo stesso Gambino e gli altri collaboratori di Fava) giovanissima, ribelle ma allo stesso tempo assennata e consapevole, seria ma pur sempre rock, audace anelito di speranza per un futuro ancora da scrivere. “La libertà di stampa e d’opinione era una vera e propria missione per Pippo Fava. Per lui il giornalista doveva essere libero da condizionamenti politici ed economici e non doveva fare sconti a nessun potere. Per conseguire questo scopo Fava fondò un giornale straordinario, I siciliani, che resterà nella storia del giornalismo italiano come un punto luminoso e innovativo sia per l’impostazione che per la grafica”, ha spiegato Vicari. “I suoi allievi (i carusi) hanno appreso da lui il rigore dell’inchiesta, il lavoro sulla qualità della scrittura e l’esercizio della capacità critica in ogni circostanza. In un’epoca nella quale il giornalismo è sottoposto a pressioni gigantesche, legate anche alla ipertrofica crescita dei social media che tendono a strappare lo scettro della “notizia” al giornalismo, la vicenda di Fava e dei suoi carusi indica una strada ancora oggi percorribile, in grado di disegnare una prospettiva e un futuro, improntato al principio irrinunciabile della libertà di stampa e d’opinione. Cose di cui oggi più che mai abbiamo bisogno”. Prodotto da Rai Fiction e IIf di Fulvio e Paola Lucisano.