Il film, fuori concorso, scoppia nel cuore, nello stomaco e nella stessa dello spettatore con tutta la ricchezza di trovate linguistiche e intersezioni con un “altrove” artistico limitrofo. E allora il vero male non è Lars “il sadico” ma chi (critici, giornalisti...) lo pregiudica uscendo a metà del film per spararne a zero. Ipocrisie da recensioni impressionistiche, istintive
Il film definitivo. La summa teleologica secondo Lars Von Trier. Nel bene o nel male che la critica decreti. Tanto a Lars nulla importa, e va bene così quando si è dotati di uno sguardo oltre, di una personalità schizofrenica (non è un’offesa per lui) che separa genialità artistica a nefandezze umane. La sua nuova opera, The House that Jack Built, ne è la prova tangibile.
E allora il vero male non è Lars “il sadico” ma chi (critici, giornalisti…) lo pregiudica uscendo a metà del film per spararne a zero. Ipocrisie da recensioni impressionistiche, istintive. Guardare dentro a un film di quel pazzo e immaginifico danese implica pazienza, forse anche girare o chiudere gli occhi perché certe scene da massacri sbattuti addosso possono “ferire” le sensibilità, turbare gli umori, insomma dar fastidio anche fisico. La proiezione ufficiale e quella stampa successiva disertate prematuramente dai signori di cui sopra: legittimo, ma per favore astenetevi dal dare giudizi senza aver dato a questo “pazzo” la possibilità di arrivare fino in fondo, fino alle profondità degli inferi dove ha deciso di condurci. Perché di questo stiamo parlando: un viaggio all’inferno della nostra anima. Jack (Matt Dillon, perfetto), l’ingegnere/architetto che costruisce e demolisce la sua casa dei sogni (perché non è di mattoni che dovrà essere edificata ma di ben altra “materia organica”) è nome omen dell’arma con cui uccide la prima vittima, la prima di una lunga serie, tutte con creativa efferatezza. Maniaco ossessivo della pulizia, perfezionista e idealista dalle chiare nevrosi, perpetua litanicamente le sue atroci “opere d’arte” cercando di raggiungere un sublime, a una climax di fronte alla quale l’unico interlocutore può arrivare dall’aldilà ovvero dal di dentro della coscienza, che porta il nome di Verge (Bruno Ganz).
L’opera ha un epilogo ed in esso esplode il senso di tutta l’opera(zione), benché già al suo interno vi siano tratti evidenti della filmografia vontrieriana, dal dialogo “psicanalitico” fra Jack e Verge simile a Nymphomaniac allo scheletro ligneo della casa che rimanda a Dogville, fino a vere e proprie sequenze desunte da propri titoli che (come è giusto che sia) sono in conversazione creativa con quello presente. Impossibile costringere un (iper)testo così vasto e profondo in poche righe, la giustizia viene nel tempo di metabolizzaizone della visione, nella riflessione. Ma di certo The House that Jack Built scoppia nel cuore, nello stomaco e nella stessa dello spettatore con tutta la ricchezza di trovate linguistiche e intersezioni con un “altrove” artistico limitrofo. Pregi e difetti di Lars sono messi sul tavolo, fra misoginia e visoni politiche, ma dove sta – ci si chiede – il male assoluto? E il marcio non è solo in Danimarca, giusto per dirla con Shakespeare. In programma, come è noto, fuori concorso l’opera è stata presentata senza la sigla ufficiale del festival di Cannes: una scelta voluta, e per quale ragione? Misteri che contribuiscono a fare di questo signore un personaggio unico nel suo genere.