Il vispo Cappuccetto giallo Di Maio salterellava ilare e beato tra le erbette nel folto del boschetto dietro Palazzo Chigi, con un contratto scritto in tedesco sottobraccio e canticchiando una filastrocca dal titolo “la storia siamo noi”. Nella sua fanciullesca ingenuità, si era convinto di trovarsi a un passo dal ricevere il dono inestimabile del premierato grazie all’appoggio di uno xenofobo, omofobo e iper-maschilista. No, non Beppe Grillo; bensì l’irsuto lupo padano Salvini, con tanto di felpa d’ordinanza “prima (un revolver per) gli italiani”.

A un tratto, ecco comparire da dietro un cespuglio di filo spinato – in cui era solito alloggiare i visitatori dalla pelle un po’ più scura fino al loro respingimento – proprio il lupo “salvino”: “Buongiorno Cappuccetto Di Maio, dove te ne vai?” “Vado a trovare nonna Mattarella, le porto una bozza di contratto per rallegrarla” “Non sarebbe meglio arrivare anche con l’apprezzato presente di un segnaposto da usare a mo’ di primo ministro?”.

L’idea era allettante, sicché il bimbo e la belva si misero a frugare nelle fungaie intorno finché non saltò fuori la stazza mastodontica di uno storico dell’economia che – con il suo lineare curriculum dal catto-trotzkismo al berlusconismo – avrebbe garantito fermezza di linea e condiscendenza ai propri sponsor nell’esecuzione del programma made in Germany assegnatogli; cui sarebbe stato precettato senza neppure avere la possibilità di emettere un fiato sul da farsi. Alla faccia dell’autorevolezza e della sua indipendenza di giudizio.

Purtroppo non fu possibile stivare il prestigioso cattedratico sovrappeso nel cestino di vimini dove Cappuccetto raccoglieva le proprie cosucce (la collezione delle foto di Sandro Pertini, Giorgio Almirante ed Enrico Berlinguer, il manuale della giovane marmotta presidente del Consiglio, l’app per adeguare alle convenienze del momento i risultati delle consultazioni sulla piattaforma Rousseau). Così l’ambizioso progetto fu accantonato.

Nel frattempo sette grilli e sette lupacchiotti lavoravano alacremente alla stesura delle famose clausole contrattuali. Purtroppo il problema era scriverle in tedesco. Sicché, per lo stress, il team degli estensori si dimenticò che l’elaborato andava progettato per stare in Europa – non in Venezuela o in Ucraina, come credevano i loro mandanti – e che questo dato avrebbe comportato vincoli di cui tenere conto. Ma Cappuccetto Di Maio non se ne preoccupava fidando in San Gennaro, mentre il Matteo mannaro semplicemente se ne sbatteva. Proprio per questo finirono però fuori strada, ritrovandosi nel Pirellone milanese a domandarsi “che ci stiamo a fare?”.

Dopo 75 giorni di peregrinazioni tornarono così nella Capitale, tra via del Corso e piazza Colonna – non lontano dal sentiero nel bosco che porta alla spiazzo del Quirinale, dove si scorge la casina di marzapane della nonna Mattarella -, confortati dalle giaculatorie fideistiche delle rispettive tifoserie: “sono giovani, mettiamoli alla prova”. Argomento identico al viatico della nota politologa Iva Zanicchi al primo governo di Silvio Berlusconi; un quarto di secolo fa: “lasciamolo provare”. Come se il premier di allora fosse una candida verginella piovuta dal cielo; non meno degli under meraviglia odierni, di cui ormai si conoscono da anni vita e miracoli. Altro che novità.

Cappuccetto Di Maio, arrivato a destinazione, trovò la nonna a letto con in testa la cuffietta da notte: “Che faccia di plastica arancione che hai, nonnina”. “È per meglio rimbalzare, piccina mia». “Che ghigno che fai”. “È per festeggiare la sterilizzazione della sentenza Severino – ottenuta grazie al tuo accordo con il lupo cattivo – e il mio ritorno in campo alla grande nella prossima campagna elettorale, in cui prenderemo il 40% dei voti e ti manderemo a pulire i cessi“. Solo allora il bambolotto che giocava a fare il premier si accorse che nel letto non c’era nonna Mattarella ma il Berlusca. Che se la rideva della dabbenaggine di Cappuccetto giallo mentre ordinava al lupo Matteo di stare a cuccia; contando sulle dita fino a cinque. Settete. Ora finalmente si scopriva il terzo nome per la presidenza del Consiglio.

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