di Stefania Mangione* e Lorenzo Fassina **
Con sentenza n. 77 del 19.4.2018 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. dell’art. 92, c. 2, c.p.c., “nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”. Per effetto di questa importante pronuncia, “il rischio di dover soggiacere ai gravosi oneri di pagamento delle spese legali in caso di soccombenza si è quindi ridotto” (vedi commento qui).
La Consulta era chiamata a pronunciarsi sull’eccessiva limitazione della discrezionalità del giudice – poco tollerata dal legislatore degli ultimi dieci anni – nel decidere sulla compensazione delle spese di lite, a seguito dell’ultima riforma della norma in questione (dopo quelle del 2005 e del 2009).
Con la novella del 2014, infatti, veniva eliminata la clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni» che consentiva al giudice di compensare le spese di giudizio e, quindi, di derogare al principio generale cosiddetto della soccombenza, secondo cui chi perde una causa viene condannato a pagare le spese di lite della controparte. Contestualmente, la riforma introduceva due ipotesi tassative in cui al giudice veniva concesso di compensare le spese: l’«assoluta novità della questione trattata» e il «mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti».
L’intervento legislativo del 2014 aveva destato, sin da subito, allarme in tutti coloro che si occupano di tutela dei lavoratori, dalle organizzazioni sindacali – e, in particolare, della Cgil (che infatti si è costituita nel giudizio di fronte alla Corte costituzionale) – agli operatori del diritto: erano già evidenti le ripercussioni che la norma avrebbe avuto sulla tutela dei diritti dei lavoratori, ovvero delle parti contrattualmente ed economicamente deboli nel rapporto di lavoro e nel processo.
Effettivamente, dai dati del censimento permanente dei procedimenti giudiziari in materia di lavoro diffusi dal ministero della Giustizia, per il periodo dal 2012 al 2016, emerge una riduzione di un terzo del numero complessivo delle cause nel settore privato, con condanne alle spese a carico dei lavoratori di importi anche pari a 15mila euro.
La Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità della norma per violazione dei principi di ragionevolezza, di eguaglianza, del giusto processo e del diritto alla tutela giurisdizionale, nella misura in cui «ha lasciato fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa», individuata nella «situazione di oggettiva e marcata incertezza, in diritto o in fatto, della lite» (che caratterizza le due ipotesi sopra nominate e può caratterizzarne altre connotate dalla «stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità»), non conoscibile dalla parte che promuove il giudizio.
Tale imprevedibilità è particolarmente evidente nel processo del lavoro nel quale il lavoratore, per poter contrastare l’esercizio illegittimo di un potere unilaterale (organizzativo, gerarchico o disciplinare) del datore di lavoro e ottenere il ripristino della legalità, è quasi sempre l’attore processuale di un giudizio in cui spesso non dispone di tutti gli elementi che potrebbero incidere sulla legittimità o meno del provvedimento datoriale (cosiddetto giudizio a controprova).
Lapidaria, in questo senso, l’affermazione della Corte, secondo cui “la prospettiva della condanna al pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti”.
La pronuncia della Corte Costituzionale è, quindi, da accogliere con soddisfazione da parte di tutti coloro che si sono mobilitati censurando, sin dal principio, la norma oggi dichiarata incostituzionale (le questioni di costituzionalità sono state elaborate e condivise da un gruppo di giuristi che avrebbe poi contribuito alla costituzione dell’Associazione Comma2).
La Corte non ha argomentato sulla posizione di debolezza economica del lavoratore, quale ragione in sé, di possibile compensazione delle spese (profilo di illegittimità sollevato dall’ordinanza di remissione del tribunale di Reggio Emilia) e tuttavia si condivide quanto già rilevato dai primi commentatori della sentenza secondo cui: “si può affermare che la pronuncia apre ampi spazi di valutazione. Al giudice di merito viene affidato, per tutte le controversie non solo quelle in materia di lavoro, uno strumento efficace di adeguamento del regolamento delle spese alle peculiarità del caso concreto”.
In tale ottica, un primo passo può essere rinvenuto nella proposta di legge della Cgil “Carta dei diritti universali del lavoro”, che propone di modificare l’art. 92 c.p.c. aggiungendo, tra l’altro, che il «il giudice può in ogni caso compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti, in relazione alla condizione delle stesse, alla differente posizione economica e sociale, alla difficoltà per la parte di ottenere le informazioni necessarie per valutare la fondatezza dell’azione o di valutare le possibilità della controparte di adempiere ai propri oneri di prova, o se ricorrono altre giuste ragioni…».
* Avvocata giuslavorista a Bologna, per i lavoratori. Ho scritto, assieme ad Alberto Piccinini, un libro in materia di comportamento antisindacale, faccio della parte della redazione regionale Emilia – Romagna della rivista RGL News e sono componente del direttivo dell’Associazione Comma2 Lavoro e Dignità.
** Responsabile Ufficio giuridico e vertenze legali Cgil nazionale.