Ispirato ai tanti casi di chiusura di fabbriche con licenziamento di massa degli ultimi anni, l'opera ne drammatizza uno verosimile per cui il management della compagnia Perrin decide di licenziare 1100 salariati: dall’annuncio del provvedimento inizia una guerra sindacale senza esclusione di colpi con effetti logoranti per gli operai. Delude anche l’attesissimo fuori concorso Solo: A Star Wars Story di Ron Howard
Filmare la guerra per il lavoro. E con essa tutti i sentimenti di rabbia, frustrazione e indignazione. Stéphane Brizé c’è riuscito. A tre anni dal solido La legge del mercato, sbarca sulla Croisette con il potente En guerre, riscuotendo finora il più lungo e caldo applauso ad una proiezione ufficiale del concorso di Cannes 2018. Anticamera di un gradimento evidente che potrebbe risuonare anche nelle “stanze” dei giurati, e dunque sortire un bel premio peraltro meritatissimo, non per ultimo il bis a Vincent Lindon come miglior attore dopo il riconoscimento appunto ottenuto per la citata La loi du marché. Chi può immaginare scenari degni del primo Ken Loach non sbaglia, ma il lato umano del formidabile cinema sociale del cineasta britannico per Brizé volge (in questo caso) soprattutto alla parola, al dibattito furioso, degno appunto di una battaglia frontale.
Ispirato ai tanti casi di chiusura di fabbriche con licenziamento di massa degli ultimi anni, En guerre ne drammatizza uno verosimile per cui il management della compagnia Perrin decide di licenziare 1100 salariati: dall’annuncio del provvedimento inizia una guerra sindacale senza esclusione di colpi con effetti logoranti per gli operai. “Sono sempre stato un uomo arrabbiato ma ho tenuto tale rabbia dentro di me, con questo film sono esploso di collera insieme a ciò che metto in scena. La domanda chiave che mi sono posto con il cosceneggiatore Olivier Gorce è fino a che punto siamo arrivati nel livello di rabbia presso la società cosiddetta civile. A quel punto abbiamo deciso di fare il film e appellarci a tutta l’esperienza della catena del lavoro, dai manager ai sindacalisti, avvocati e consulenti del lavoro, operatori sociali etc… Con me ho chiamato il fido Vincent Lindon e una serie di attori non professionisti ma impegnati nel mondo del lavoro perché volevo incarnassero il proprio linguaggio, la loro esperienza personale”. Guardando e ascoltando En guerre sembra proprio i stare dentro a un conflitto dai canoni guerreschi che parte dai toni morbidi per poi accendersi allo scontro letale fra le parti. E il miracolo è che il film ha tutti i “sintomi” della verità da reportage se non fosse che invece è interamente ricostruito per la drammatizzazione filmica. “Il bello della finzione offerta dal cinema – spiega bene Brizè – è che permette di arrivare laddove il giornalismo non può accedere, ovvero in ciò che non si vede, nella sfera privata degli astanti, e soprattutto offre una riflessione a posteriori – e dunque più attenta al senso complessivo dei fatti – che non quella data da un reportage in diretta”. Opera complessa da farsi per apparire così “semplice” nella sua naturalezza, En guerre è l’ennesima testimonianza del talento versatile del 52enne cineasta da Rennes, che oltre a La legge del mercato aveva incantato la Mostra veneziana con Une vie nel 2016. Vincent Lindon, ormai dichiaratosi alterego di Brizé, è fiero di essere stato scambiato per un sindacalista (“qualcuno mi ha detto sarei un perfetto portavoce, ancora meglio di come faccio l’attore…”) e s’indigna quando l’opinione pubblica deplora lo show biz che si occupa di problemi sociali o politici: “Il punto è che a nessuno bisogna vietare di fare del bene, così come non sta scritto da nessuna parte che se non sei figlio di una famiglia proletaria non puoi fare film sui proletari”.
A questo titolo forte in corsa verso la Palma d’oro non ha trovato egual corrispondenza il secondo americano concorrente dopo Spike Lee: David Robert Mitchell con il suo deludente Under the Silver Lake con protagonista un pur vivacissimo Andrew Garfield. Una vera occasione mancata per il cineasta dalle ottime premesse (The Myth of the American Sleepover del 2010 e It Follows del 2014) che spezza le speranze su un’opera nata sulla carta come fulgido omaggio alla Hollywood dei generi, con chiara preferenza a quello noir/mistery su cui poggia la sua estetica palesemente “hitchockiana”. E a deludere, purtroppo, è anche l’attesissimo fuori concorso Solo: A Star Wars Story. Lo spin-off su Han Solo diretto da Ron Howard ha suscitato più noia che adrenalina, spendendo le sue 2h15’ fra ovvie e rispettabilissime battaglie e costruzione di squadre, amicizie e amori tutti orientati a mostrare chi era da giovane l’eroe che nella saga fu poi interpretato da Harrison Ford. Ma – ahinoi – è proprio il giovane Alden Ehrenreich una delle principali cause del flop narrativo del blockbuster: la sua carenza di carisma non è perdonabile. Pollice verso, rimandati al prossimo.