Società

Istat: “Italia secondo Paese più vecchio al mondo. Niente mobilità sociale: dote familiare determinante per il successo”

Il rapporto 2018: ci sono 168,7 anziani ogni 100 giovani. E solo il 18,5% di chi parte dal basso si laurea e il 14,8% ha un lavoro qualificato. La spesa per protezione sociale è al 30% del pil, dato superiore a quello registrato in tutti gli altri Paesi dell’Unione Europea: la media è al 28,5%

L’Italia è il secondo Paese più vecchio al mondo dopo il Giappone, con un declino demografico confermato per il terzo anno consecutivo, mentre le nascite sono in calo da nove anni. Ci sono 168,7 anziani ogni 100 giovani. Ma è anche il Paese con un ascensore sociale bloccato, dove la “dote familiare” – in termini di beni economici ma anche di titoli di studio e attività dei genitori – è “determinante” per avere successo nello studio e nel lavoro: solo il 18,5% di chi parte dal basso si laurea e solo il 14,8% ha un lavoro qualificato. Questo il quadro che emerge dal rapporto Istat 2018 che rivela anche come la cerchia di parenti e amici è decisiva non solo nel cercare un impiego, ma anche nel trovarlo. Tant’è che lavora grazie a questo ‘canale informale’ il 47,3% (50,6% al Sud) degli occupati contro il 52,7% che l’ha ottenuto tramite annunci, datori di lavoro, agenzie e concorsi.

IL DECLINO DEMOGRAFICO – Dal 2015 l’Italia è entrata in una fase di declino demografico. All’1 gennaio 2018 si stima che la popolazione ammonti a 60,5 milioni di residenti, con un’incidenza della popolazione straniera dell’8,4% (5,6 milioni). La popolazione totale è diminuita di quasi 100mila persone rispetto ai dati dello scorso anni. “Si accentua contemporaneamente l’invecchiamento della popolazione – sottolinea il rapporto – nonostante la presenza degli stranieri, caratterizzati da una struttura per età più giovane di quella italiana e con una fecondità più elevata”.
Per il nono anno consecutivo le nascite registrano una diminuzione: nel 2017 ne sono state stimate 464mila, il 2% in meno rispetto all’anno precedente. Si tratta di un nuovo minimo storico. Pur mantenendosi su livelli decisamente più elevati di quelli delle cittadine italiane (1,95 rispetto a 1,27 secondo le stime nel 2017), diminuisce il numero medio di figli delle cittadine straniere, come conseguenza delle dinamiche migratorie e della loro struttura per età che si presenta ‘invecchiata’ rispetto al passato. In Italia, poi, si diventa genitori sempre più tardi. Considerando le donne, l’età media alla nascita del primo figlio è di 31 anni nel 2016, in continuo aumento dal 1980 quando era di 26 anni.

GLI EFFETTI DEL DEBITO DEMOGRAFICO – L’invecchiamento della popolazione dovuto anche al guadagno di quella anziana in termini di sopravvivenza “porta con sé – si spiega nel rapporto – un’accresciuta domanda di cura che mette in tensione il ruolo di sostegno della rete di parentela”. Si tratta del ‘debito demografico’ contratto da un paese nei confronti delle generazioni future in termini di previdenza, spesa sanitaria e assistenza. L’evoluzione demografica degli ultimi decenni non solo ci consegna un Paese profondamente trasformato nella struttura e nelle dinamiche sociali e demografiche, ma non ci fa ben sperare per il futuro. La tendenza demografica, infatti, è destinata ad accentuare ulteriormente il processo di invecchiamento. Secondo le previsioni, tra 20 anni lo squilibrio intergenerazionale sarà ancora più critico, con 265 anziani ogni 100 giovani.

IL RUOLO DELLE FAMIGLIE NELLE SCELTE INDIVIDUALI – Nel 2017, per il secondo anno consecutivo, in Italia aumentano gli occupati di 15-34 anni (+0,9%). Il tasso di occupazione cresce in tutte le classi di età, ma è minore tra i più giovani. Si attesta al 40,6% tra i 15-34 anni (+0,7 punti percentuali), al 73% tra i 35-49 anni (+0,6 punti) e al 59,2% tra i 50 e i 64 anni, tra i quali si segnala l’aumento più consistente (+1,1 punti). È un dato importante per capire l’importanza del sostegno che le nuove generazioni ricevono da quelle precedenti. I rischi di vulnerabilità economica, d’altro canto, sono minori in presenza di uno o più redditi da lavoro in famiglia, ma anche le scelte individuali – ad esempio quelle relative alla partecipazione al mercato del lavoro o alla prosecuzione degli studi – sono influenzate dalla presenza (o meno) di più fonti di reddito nel contesto familiare. In un contesto come quello italiano, inoltre, caratterizzato da persistenti carenze del sistema di protezione sociale, la rete rappresentata dalla famiglia costituisce un fattore di mutuo aiuto e stabilizzazione economica. Le cure dei familiari, ad esempio, svolgono una importante funzione di ammortizzatore sociale, in grado di arginare le scosse negative derivanti dalla perdita dell’occupazione, dalla crisi dell’attività o da problemi di liquidità.

Nel 2017, se si selezionano le famiglie con almeno un componente di 15-64 anni (il 72,8% del totale di quelle residenti), le famiglie jobless (senza percettori di reddito da lavoro) ammontano a 2,1 milioni, in riduzione del 3,5% rispetto a un anno prima. Sempre considerando le famiglie con almeno un componente tra 15-64 anni, nel 2017 quelle che possono contare su due o più redditi da lavoro sono 6 milioni (il 32,0% del totale), quelle con almeno un pensionato e almeno un occupato ammontano a circa 1,6 milioni; pertanto le famiglie sostenute da due o più redditi sono 7,7 milioni, in aumento dello 0,4% rispetto a un anno prima. Quelle in cui non è presente alcun pensionato, e nelle quali dunque il sostegno economico deriva unicamente dalla presenza o assenza di redditi da lavoro, ammontano a 15,7 milioni, 92mila in più rispetto al 2016 (+0,6 per cento).

LA SPESA SOCIALE E LA PERCEZIONE DEL SOSTEGNO – Ed è in questo contesto che la spesa per il welfare assume un’importanza cruciale. Nel 2015 la spesa per protezione sociale è stata in Italia pari al 30% del Pil. Un dato superiore a quello registrato nei Paesi dell’Unione Europea che hanno speso mediamente il 28,5% del Pil. Le prestazioni sociali in denaro predominano su quelle in natura, con l’Italia che presenta il valore più elevato (il 22% del Pil). Eppure tra le persone di 75 anni e più la quota di coloro che dichiarano un sostegno debole (19,1 per cento) rimane comunque alta, poiché entrano in una fase della vita particolarmente critica. Nel confronto con l’Unione europea, l’Italia mostra una maggiore fragilità: per tutte le classi di età è più bassa la quota di chi percepisce un sostegno forte (27,8 contro 34,1 per cento) ed è più elevata la quota di chi dichiara una percezione di un sostegno debole (17,4 contro 15,5 per cento).