Oliviero Beha stava antipatico soprattutto ai giornalisti. Solo dopo ai politici e al potere – che lo rispettavano e temevano – ma prima ai giornalisti: per la sua intelligenza, irriverenza a tratti arrogante, la sua sferzante capacità di mettere in scacco semplicemente combinando insieme “le tessere del mosaico”.
Leo Gullotta, sul palco del teatro Ghione di Roma, leggendo brani di libri, poesie e testi teatrali dello scrittore lo ha ricordato, assieme a molti altri, nella serata dal titolo L’Antipatico, una serata per ricordare Oliviero Beha. “Sono un soggetto disturbante – si definiva – mi abbattono e mi rialzo”. Una caratteristica questa che era anche la sua forza, forse. “Posso essere depennato solo se esisto. Sto sulle scatole nella forma – perché sono urticante – ma anche nella sostanza, per i miei diversi punti di vista con cui rimetto in discussione quelle briciole di verità di destra, di sinistra e di centro”.
Sul palco del teatro romano, immagini e scatti fotografici dello sguardo bello e buono di Oliviero Beha, scomparso il 13 maggio 2017, hanno raccontato, assieme alle testimonianze di tante persone – colleghi e non – momenti di amicizia, litigi, confronti e scontri con lo scrittore, giornalista, conduttore e molte altre cose. In scena il suo montgomery rosso, un quotidiano e la maglia della Fiorentina, la squadra del cuore: intellettuale e sportivo, giornalista e atleta, burbero e tenero – nella sconfinata dolcezza dell’amore per i suoi affetti e per il nipotino Michele, al quale ha dedicato l’ultimo libro Mio nipote nella giungla.
In un sms l’essenza della poesia di cui era capace Beha: “Vorrei uscire dalla vita ma non so come fare”.
La serata, voluta dalla famiglia nel luogo diventato “il palcoscenico di casa” di Giorgio Albertazzi – grande amico di Beha – è stata presentata da Livia Azzariti. Quasi come se ognuno dei presenti stesse prendendo un caffè con lo stesso Oliviero. L’attrice Mariangela D’Abbraccio ha letto il testo teatrale Notti immemorabili del 1986, dal quale emergeva la sua “nitida paura di morire”, perché solo “chi non desidera abbastanza non ha paura di morire”.
Oliviero Beha era un giornalista “avanti”, nei pensieri e nei linguaggi televisivi che hanno caratterizzato i programmi che ha ideato e condotto. Uno stile personale che si manifestò sin dagli inizi, come ad esempio nella rubrica La Gazzetta dello spot, in onda su Rai Tre dal 1989 al 1990.
Antonio Di Bella, allora direttore del Tg3, fu l’unico nel lungo periodo di allontanamento, emarginazione e demansionamento subito da Beha dalla Rai (sancito dalla Corte d’Appello di Roma quattro mesi dopo la sua morte) che gli assegnò un commento settimanale di cronaca sportiva nell’edizione del Tg3 delle 19. “Gli avevo detto che qualsiasi cosa avesse voluto fare per me andava bene. Rimpiango di non aver fatto di più”.
Quel commento serale settimanale venne chiuso dopo soli due anni, nel 2010 non senza polemiche. A Radio 24 parlando del suo approfondimento come “una terra di nessuno” il giornalista fiorentino aveva detto: “Ho parlato del calcio che non funziona, dello scandalo dei Mondiali, ho fatto le pulci al potere politico legato al calcio. Devo aver dato fastidio a qualcuno”. Beha era “Brontolo” ma non rancoroso. “Era condannato ad essere Oliviero Beha – ha sottolineato Enrico Vanzina -. Era malinconico perché imprigionato in se stesso”.
Oliviero Beha, il giornalista che con la sua “Radiocolori” riusciva a trasformare i piccoli casi di cronaca di provincia in grandi questioni nazionali. Senza papelli, dossier, scartoffie: con le testimonianze delle persone che diventavano il pretesto per raccontare questo Paese protagonista anche nel libro “Crescete e prostituitevi”. Era un vero indignato che è ben diverso dall’essere rancoroso.
“Oliviero con il quale ho litigato tanto, aveva ben presente quanto il giornalismo dovrebbe raccontare la politica osservandola dalla giusta distanza di sicurezza per non finire nella palude” ha sottolineato Antonio Padellaro. “Quando si rivolgeva ai ragazzi aveva un chiodo fisso: diffidate di chi parla complicato”.
Beha possedeva l’innata vocazione ad essere docente e aprire strade. Per chi scrive è stato la porta d’accesso alla casa di Articolo21. Quando da precaria, pagata a cottimo e a chiamata cercavo una parola di consolazione mi diceva: “Se non ce la fai, molla tutto. Cambia strada”. Una risposta che non mi faceva certamente sentire meglio. Ma quella era la verità che Oliviero ti sbatteva sempre in faccia. Lo ricordo seduto in platea al teatro Filodrammatici di Cremona, alle prove dello spettacolo di impegno civile che aveva allestito sulla base del suo libro Italiopoli, con la regia di Beppe Arena con le immagini di Cafonal di Dagospia che scorrevano sullo schermo.
Lo avevo raggiunto per un’intervista proprio per Articolo21; indossavo un cappotto bianco. Mi salutò e mi disse: “Come sei elegante”, credo fu l’unico complimento che mi fece. Era il 2010, iniziò l’intervista dicendo: “Mi limito a fare il giornalista e a trovare il bandolo della matassa per raccontare ciò che spesso i giornali non fanno più. A distanza di 30 anni questo Paese sta andando ben oltre le visioni pasoliniane – definite allora decadenti – E’ l’Italia che Pasolini prefigurava tentando di esorcizzarla e che invece ci ha travolto”.
Al termine della conversazione, prima di salutarci mi disse: “Non smettere mai di essere curiosa”.
e.reguitti@ilfattoquotidiano.it