Dopo aver visto Dogman, nonostante il fascino estetico, la magniloquenza di un’esperienza cinematografica totalizzante tipica del cineasta romano, si rimane come un po’ freddini. Rimane l’immensa capacità di Garrone nell’essere un regista totale, uno di quelli che costruisce set ed elabora ogni singola immagine con una cura maniacale dal particolare al campo lunghissimo
Metti la nonna, anzi il cagnetto nel freezer. Una delle sequenze più imprevedibili di Dogman, il nuovo film di Matteo Garrone, è quella in cui il protagonista Marcello (Marcello Fonte), corre a liberare un cagnolino che era stato chiuso dentro un congelatore dal suo amico/complice Simoncino (Edoardo Pesce) durante una rapina in una ricca villa. Marcello appoggia il cane sul lavandino e con una spruzzatina di acqua calda, voilà, torna come nuovo, scodinzolante e felice. Incrociando la fiaba nera garroniana con lo screzio demenziale interpretato recentemente da Fabio De Luigi (anche lì la nonna congelata si scongela col phon) ne esce il tempo di una battuta e di una considerazione percettiva. Dopo aver visto Dogman, nonostante il fascino estetico, la magniloquenza di un’esperienza cinematografica totalizzante tipica del cineasta romano, si rimane come un po’ freddini. Dentro al freezer sembra esserci rimasta anche l’anima mai molto “calda” del cinema di Matteo Garrone che questa storia di cronaca, quella dell’omicidio del “Canaro” della Magliana, ha ripreso nella versione dell’omicida Pietro De Negri (quella definitiva delle sentenze dei tribunali divenne poi differente), rielaborandola da almeno un decennio, aggiungendo tra tanti piccoli dettagli proprio questo momento inventato di tenerezza paterna e animalista.
L’angolo decaduto e disabitato di Castelvolturno, dove produzione e regia hanno ricostruito un set sintesi tra reale ed immaginario, è uno spazio prigione opprimente, senza vie di fuga perfino nella gamma ristretta di colori usata (la fotografia di Nicolaj Bruel è da studiare a a scuola), chiuso attorno al minuto, magrolino toelettatore per cani Marcello, amico dell’erculeo, violento e incontrollabile Simone. Entrambi pippano cocaina, ma è il canaro a fornirla (come nella realtà) all’energumeno sodale. È su questa linea bisettrice basso/alto a tagliare l’inquadratura che Garrone costruisce l’ennesimo conturbante ed universale rapporto di dipendenza caratteriale che aveva la sua sublimazione metafisica più alta nel mostruosamente bello Reality. In Dogman i due protagonisti, oltretutto, vivono questa vicinanza amicale in modo prepotentemente fisico, corporeo, più che a livello psicologico, deviando un poco dalla perversa malia regnante in lavori come L’imbalsamatore o Primo amore; lì dove vigeva con forza una sottomissione cieca prima di tutto mentale del più debole. Oltretutto in Dogman il Marcello trasfigurato caratterialmente, dopo essersi fatto un anno di carcere al posto dell’amico, si vendica dei soprusi subiti ribellandosi al suo oppressore. Una u-turn di senso del racconto mai accaduta nei precedenti titoli del nostro.
Il discorso, insomma, spiazza. Lo smarrimento generale di Marcello sa più di paranoica ossessione verso la società muta attorno a lui che di amorevole devozione al proprio carnefice. Chiaro che al netto di questa variante, rimane l’immensa capacità di Garrone nell’essere un regista totale, uno di quelli che costruisce set ed elabora ogni singola immagine con una cura maniacale dal particolare al campo lunghissimo, dai muri scrostati nel negozio di toelettatura agli arbusti e i fili penzolanti tra sabbia e mare a un chilometro in profondità di campo, come oggi nessun altro autore almeno in Italia riesce a fare. Garrone è forse l’unico regista italiano che rinuncia alle scorciatoie facili della parola, della battuta, del dialogo ad effetto, concentrando forze, energia e potenza nella dimensione meramente visiva in cui tutto il senso del suo lavoro converge.
Solo che questa sintesi con Dogman non appassiona, e non stuzzica granché intellettualmente nei dintorni di qualche patologia deviante, concentrandosi invece sulla paura degli effetti pratici (i soldi, la miseria) di una scelta sbagliata del singolo grazie anche uno sguardo che finisce per stringere e mettere in risalto soprattutto lapilli, rivoli, chiazze di sangue. Per non dire della crew canina che come nella carrellata iniziale del Mondo Cane jacopettiano introduce e fa da coro/sfondo abbaiante mostrando simboliche analogie che poi accadranno tra gli umani (il cane da domare legato con la catena al collo come accadrà a Simone, i cani in gabbia come succederà sempre per l’amico bestione). Dogman va visto per carità, ma il recente percorso produttivo di Garrone con in mezzo l’affascinante e disorientante Racconto dei Racconti sembra come aprire una nuova strada più astratta e fiabesca (aspettiamo con ansia il tanto atteso Pinocchio) che lascerà ulteriormente il segno.