Un verminaio. È quello che si inizia a intravvedere sotto la superficie della vicenda del nichel e del finanziere calabrese Giovanni Calabrò, alias “il marchese del Grillo”, come è stato ribattezzato dalla procura di Busto Arsizio all’epoca del crac Algol per il quale è stato condannato in via definitiva a 6 anni e 2 mesi di reclusione. Tolta la patina di folklore che circonda il personaggio e le apparenti modalità con cui ha condotto fino a questo momento i suoi affari in Italia (una via di mezzo tra “Totòtruffa ’62” e “La Stangata”), emerge una realtà ben più variegata e complessa in cui entrano in gioco professionisti, consulenti, revisori, enti certificatori, società terze, funzionari, sottobosco politico e potentati locali.

Lo si è intuito a Roma, dove nel 2004 Calabrò è riuscito a pignorare con successo il conto della Tesoreria del Comune “prelevando” 30 milioni di euro immediatamente trasferiti a Lussemburgo e poi, anziché restituire il maltolto, ha rifilato al Campidoglio (a guida Alemanno) una partita di nichel wire per un valore presunto di 55,4 milioni di euro senza che il Comune si preoccupasse di chiedere pareri terzi e di far eseguire una perizia indipendente. Lo si vede ora, con maggiori dettagli, nel nuovo “colpo” messo a segno nel vicentino ai danni di un’importante azienda dei rifiuti, la Safond-Martini di Montecchio Precalcino. Ne abbiamo scritto sul numero di aprile di FQ Millennium tratteggiando la figura di Calabrò, i suoi rapporti con la famiglia Berlusconi, quelli con il governatore della Liguria Giovanni Toti, gli stretti legami di parentela con killer di ‘ndrangheta e, appunto, gli investimenti in nichel wire che di recente hanno prosciugato le casse dell’azienda veneta gettando ombre inquietanti su molti personaggi, a partire dall’imprenditore Rino Dalle Rive, patron di Safond-Martini, che oggi si professa truffato.

Dalle Rive, però, fino al 2016 – come risulta dagli atti ufficiali – ha utilizzato l’azienda come un bancomat per finanziare le sue passioni personali, fino a spingerla a investire oltre 14 milioni di euro nel nichel di Calabrò, assestandole un colpo (quasi) mortale. Tutta colpa di un fiuto imprenditoriale che si è improvvisamente e irrimediabilmente guastato o dell’eccesso di avidità di un uomo deciso ad andare oltre? Sarà l’inchiesta penale aperta dalla procura di Vicenza a chiarirlo, ma una piccola certezza che emerge da questa vicenda è che fino ad ora gli unici che ci stanno rimettendo davvero sono i creditori chirografari che rischiano di restare con un pugno di mosche in mano (i dipendenti al momento sono tutelati, essendo l’azienda in concordato).

E anche questo dovrebbe far riflettere. Che Calabrò sia abile non c’è ombra di dubbio: lo riconoscono senza difficoltà i pubblici ministeri che lo hanno inquisito in passato e che sono riusciti a ottenerne la condanna in via definitiva. Ma se anche Dalle Rive si fosse fatto incantare da promesse di guadagno facile, risulta molto difficile spiegare come oltre 14 milioni di euro abbiano potuto uscire dalle casse di Safond Martini senza che né il consiglio d’amministrazione, né il collegio sindacale, né la società di revisione abbiano avuto nulla da eccepire. Qui non si sta parlando di un semplice investimento, ma di una presunta operazione speculativa che nulla ha a che fare con il business caratteristico dell’azienda e che – sommata agli ingenti debiti – ha finito con il mettere a rischio la continuità d’impresa.

Per dare un’idea, 14 milioni rappresentano il 27% dell’attivo totale che risulta nel 2015 dallo stato patrimoniale dell’azienda (il 48% nel 2016). Dai documenti ufficiali della società, però, non emerge alcun rilievo sull’opportunità di effettuare quell’investimento e, anzi, nella relazione al bilancio 2015 si legge: “Vi segnaliamo che la voce prodotti finiti e merci mantiene un valore sostanzialmente sovrapponibile a quello registrato alla chiusura del precedente esercizio, quasi esclusivamente connesso all’acquisto di uno stock di filo di nickel, effettuato dalla società sul finire del 2014, il cui valore in giacenza alla data di chiusura dell’esercizio ammonta a €14,1 milioni. Tale materiale ha un elevato valore intrinseco e, pur essendo un prodotto di nicchia, destinato a una pluralità di utilizzi in settori ad alta tecnologia, ma con un relativamente limitato numero di acquirenti finali, presenta importanti potenzialità di profitto e per tale ragione la società ha provveduto all’effettuazione di tale operazione, pur comportando un rilevante impegno in termini finanziari”.

Parole impegnative, anche perché a fine 2015 – a fronte di un’uscita di oltre 14 milioni dai conti della società – il nichel wire di cui si parla non era nella disponibilità della società. E di ciò non fa parola il collegio sindacale presieduto da Paolo Zanconato, uomo di fiducia di Gianni Zonin e, tra le altre cariche, presidente del collegio sindacale della Popolare di Vicenza, banca di cui proprio Safond Martini risulta tra i maggiori debitori. Una singolare coincidenza.

Tornando al nichel, dopo aver inutilmente esperito diversi tentativi di farsi consegnare il materiale da Calabrò, nel giugno 2016 Dalle Rive si rivolge a Riccardo Sindoca e alla sua Veneto Capital Service conferendogli l’incarico di recuperare il metallo acquistato, senza il quale la società avrebbe avuto seri problemi a chiudere il bilancio. Perché Dalle Rive si rivolge proprio a Sindoca, personaggio balzato agli onori delle cronache nel 2005 nell’ambito dell‘inchiesta sulla Dssa, una sorta di “polizia parallela” messa in piedi dal neofascista Gaetano Saya? “Nessun mistero – spiega Sindoca, che rivendica la correttezza del suo operato, la lealtà alla Costituzione e l’appartenenza con il grado di Luogotenente Generale a una struttura informativa che opera in ambito Nato e che ha base Londra -. La frequentazione di Dalle Rive con la mia famiglia risale ai primi anni 2000. Fu presentato da una conoscenza comune, l’ingegner Nicola Galassi, e divenne un amico di famiglia. Mia madre nel tempo lo ha anche aiutato economicamente. Io con lui ho iniziato ad avere un rapporto professionale nel giugno 2016, quando si è presentato da me per chiedermi di recuperare il nichel acquistato da Calabrò”.

Il nichel viene recuperato (“è attualmente depositato a Lugano in una cassetta di sicurezza a firma congiunta, mia e di Dalle Rive”) ed è in virtù di questo contratto e di successive scritture che Sindoca vanta un credito di 5,1 milioni nel confronti di Safond Martini. Sull’ammissibilità di questo credito si è aperta un’aspra battaglia in sede civile ed anche penale, con esposti e contro-esposti su cui è chiamata a esprimersi l’autorità giudiziaria. Sindoca – che lamenta come contro di lui sia stata scatenata dalla controparte una vera e propria campagna calunniosa volta a delegittimarlo per indurlo a desistere –risulta ora iscritto a Vicenza nel registro delle persone offese. Ma il caso Safond Martini non ruota solo sulla questione dei crediti e solleva molti quesiti inquietanti. La questione stessa dell’investimento in nichel wire (un bene di mero uso industriale, sostanzialmente illiquido, non soggetto a quotazione su mercati regolamentati) sembra prefigurare qualcosa di diverso da un mero intento speculativo: nel 2014, quando Dalle Rive decide di lanciarsi in questa operazione, il “caso” Roma era ampiamente noto e lo stesso Calabrò aveva già subito una condanna in primo grado per il crac Algol (condanna poi divenuta definitiva nell’ottobre 2017). Perché e con quali finalità un imprenditore veneto dovrebbe mettersi in affari con un discusso finanziere calabrese acquistando consapevolmente per milioni di euro la stessa tipologia di merce che il Comune di Roma sta tentando infruttuosamente di vendere da anni? A mettere in contatto Dalle Rive con Calabrò è ancora una volta un professionista: si tratta del commercialista Pietro Perissinotto, compagno di molte avventure di Calabrò (è stato anche presidente dei sindaci della sua Calfin) e, al tempo stesso, professionista di fiducia di Dalle Rive.

Il contatto si è avuto per un caso fortuito o invece è stato stabilito allo scopo di soddisfare specifiche esigenze rappresentategli dai clienti? E’ una domanda che al momento non ha ancora una risposta, ma il sospetto che dietro le compravendite di nichel wire ci sia qualcosa di più di una semplice truffa è rafforzato dal fatto che i denari della Safond Martini hanno preso la strada dell’estero e che il metallo acquistato non ha mai varcato i confini nazionali e, anzi, fino all’estate del 2016 non era nemmeno nelle disponibilità dell’azienda, nonostante figurasse a bilancio.

Chissà perché nessuno si è preso la briga di contestare alla Calfin di Calabrò l’inadepienza contrattuale ed eventualmentedi denunciare la presunta truffa. La denuncia arriva molto tempo dopo, nel febbraio 2017, e a presentarla non è Rino Dalle Rive, ma l’allora presidente di Safond Martini, Andrea Barbera. L’esposto di Dalle Rive arriva solo nel febbraio 2018, quando la situazione per l’imprenditore vicentino si fa davvero difficile: la grana del nichel wire e delle presunte distrazioni ai danni della Safond Martini rischia di aggiungersi a quelle del fallimento dell’AltoVicentino, la sua società calcistica, e del fallimento di Fonderia Anselmi srl, la società con cui Dalle Rive aveva preso in gestione l’attività dell’omonima spa padovana in concordato preventivo.

Truffa o non truffa, l’imprenditore dei rifiuti dovrà con ogni probabilità spiegare molte cose assieme ai consiglieri, ai dirigenti, ai sindaci di Safond Martini e alla pletora di professionisti che in questi anni ha assistito l’imprenditore e la sua società.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Alitalia, il cambio di rotta non interrompe la picchiata dei conti. E la gestione commissariale rischia di costare cifre folli

next
Articolo Successivo

Mps, il tracollo in borsa figlio del rapporto malato tra banche e politica

next