di Dafni Ruscetta
Oggi più che mai mi sento minoranza in Italia, il Paese “che non esiste” come diceva qualche giorno fa il bravo Mattia Feltri sulle pagine de La Stampa. Il Paese dei guelfi e dei ghibellini, delle guerre continue tra province, regni e regioni, del sentimento anti-nazionale, del dualismo imperante e della continua ricerca di un leader. Un contesto socio-culturale che va impoverendosi di giorno in giorno, che sta scivolando nuovamente verso la “barbarie”, in questo senso continuo a provare disagio e a sentirmi minoranza.
Circa 10 anni fa, rientrando da una lunga esperienza nella serafica ed evoluta Danimarca, avvertivo già un senso di preoccupazione per la strana atmosfera di pessimismo che qui si respirava quotidianamente. Ero passato da un clima sociale euforico a uno stato di depressione generale. I social network non erano così popolari e diffusi, Internet era ancora solo una grande speranza per molti giovani. Eravamo convinti che, di lì a poco, qualcosa di positivo sarebbe accaduto, che con una maggiore consapevolezza del “respiro del mondo” – per dirla alla Feltri – le nuove generazioni avrebbero contribuito a rinnovare quella visione, per portare al cambiamento a lungo auspicato.
Dieci anni fa ciò che maggiormente demoralizzava i giovani (di allora) era la constatazione di uno stato di “torpore” generalizzato, di conformismo, di indifferenza e di adesione quotidiana a modelli che si auto-alimentavano per la sola forza delle abitudini. Oggi, al contrario (e forse anche peggio) ciò che più colpisce è l’eccesso di boria, di protagonismo (o di ‘vanità’ se preferite), di volgarità, di violenza verbale, la mancanza di umiltà e il carico di conseguenze negative a cui questo sta portando in termini socio-culturali.
A seminare la violenza nel mondo sono l’ignoranza e la confusione, oltre che le ingiustizie trascurate. Buona parte della realtà umana (i pensieri, le emozioni, i sentimenti e le inclinazioni) viene costruita socialmente e la socialità, in questi ultimi anni, si è affermata tramite i nuovi mezzi di comunicazione, che sempre più spesso creano legami di dipendenza profonda (quasi di obbedienza) rispetto a queste nuove forme. Qualsiasi cosa si affermi su Facebook appare “vero” a priori, a prescindere dalla realtà oggettiva che contraddistingue quei fatti. Qualunque forma di identità (il tifo, l’ideologia, il dualismo appunto) implica una rinuncia alla molteplicità, a un’accettazione (entusiastica, forzata o dissimulata) della particolarità. Così, scivolare dal riconoscimento e dal rispetto delle differenze alla discriminazione, da questa al rifiuto e dal rifiuto al tentativo di esclusione, di eliminazione, è un passo molto breve. Mattia Feltri parla di “tifosi schierati contro tutti gli altri tifosi, che chiamano delinquenti, traditori, al soldo del nemico, e gli riserverebbero il patibolo”.
Ancora una volta – la storia si ripete ciclicamente nei suoi contenuti, quello che si modifica sono solo le forme, in base ai mezzi a disposizione in ciascuna fase – si sta imponendo il modello dell’egoistica affermazione del sé sociale come superiore (perlopiù espresso mediaticamente nei social network), spesso proclamata da chi accetta supinamente le narrazioni di cui ci si sente parte, in quanto il senso di identità comune genera sicurezza. Ma l’evoluzione di un popolo, di una cultura, di una nazione è possibile solo grazie a una presa di coscienza prima individuale che collettiva; in politica non basta più l’onestà dell’individuo, nemmeno la sola competenza, occorre qualcosa di più radicato in profondità, qualcosa che riveli un “’io’ e un ‘noi’ più autentici e consistenti”.
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