Qui in Australia siamo (sono!) tutti moblitati per il Royal Wedding, le nozze del secolo tra il principe Harry e Meghan. Una sorta di follia collettiva, con il matrimonio trasmesso in contemporanea su tutti i principali canali televisivi pubblici e privati del Paese. Persino il football australiano, che gode da sempre della rituale vetrina della partita del sabato sera (come il calcio in Italia), è stato relegato in un canaluccio di terza categoria.
Non si parla di altro da giorni qui a Down Under, e le famiglie si sono divise in due per l’occasione: le mogli hanno organizzato feste (uomini non ammessi) “in maschera”, dove si sono agghindate come se fossero state invitate di persona al grande evento. Veri e propri raduni di massa in case private, con gente incollata alla televisione per quattro ore a seguire ogni singolo sospiro e respiro della coppia reale. E i mariti al pub a bersi la tradizionale birra (oddio, il singolare stride perché qui si va da almeno due boccali in su, come all’Oktoberfest), mentre sullo schermo passano le medesime immagini di cui si cibano avidamente le loro mogli.
Isteria monarchica, senza dubbio. Il prezzo da pagare per questo Paese, che si trova ancora sotto l’egida (assai formale) della regina Elisabetta e che nel 1999 ha deciso di votare contro il passaggio a un sistema repubblicano, quando gliene fu offerta l’opportunità tramite referendum. Sinceramente: la nostra amata Repubblica Italiana avrà mille difetti e ogni tanto le istanze democratiche sembrano scricchiolare, come abbiamo sperimentato negli ultimi due mesi post-elezioni. Ma io ogni giorno ringrazio il cielo di essere nato e cresciuto in una nazione senza re, regine e ammenicoli vari.
Non ne faccio una questione di sistema politico: ognuno ha le proprie idee e sono tutte legittime. Ma la monarchia – storicamente – viene offerta con questo pacchetto completo di ottuso conservatorismo e formalismo, che trovo completamente anacronistico in una società che (fortunatamente) si sta muovendo con sempre maggior decisione verso l’abbattimento di vecchie regole desuete. Pensate alla quantità di Ceo di aziende multinazionali che vanno a lavorare in maglietta e jeans dopo aver buttato nel cestino giacca e cravatta. Pensate al sempre più diffuso utilizzo del tu in conversazioni anche formali, al posto del lei (senza parlare del voi!). Pensate al linguaggio colloquiale attraverso il quale tanti primi ministri e presidenti si sono rivolti ai cittadini negli ultimi anni (da Obama a Renzi, da Macron a Trudeau, per citarne alcuni).
Le sovrastrutture convenzionali sono diventate simbolo di un’epoca passata e rappresentano la negazione di quel tipo di società flat (orizzontale) che si sta affermando in quasi tutti i Paesi occidentali. E l’Australia ne è un esempio fulgido: qui la gerarchia è quasi nulla, persone di vario background e potere economico si mescolano tranquillamente senza dover delimitare o sottolineare i confini del proprio status. Abbiamo avuti primi ministri che durante il weekend andavano a fare volontariato nel locale lifesaving club (che equivale al nostro servizio di salvataggio marittimo, per intenderci) e io stesso ho provato varie volte l’esperienza di mettermi a chiacchierare a una partita di cricket o a una festa di bambini con gente in ciabatte e calzoncini corti, che poi ho scoperto essere Ceo di multinazionali, politici di alto rango, etc.
Eppure, quando si tratta della monarchia, tutto questo viene dimenticato e il Paese si scopre vittima di un brainwashing di massa dove tutti decidono di celebrare con gaudio le nozze di un giovane nobile che non ha nessuna affiliazione, e men che meno nessuna rilevanza, per questa nazione. Ricordiamocelo, quando ci lamentiamo del nostro Paese e contesto sociale. Vivere in una Repubblica è un privilegio che ci libera di tutta questa sovrastruttura fastidiosamente formale e che ci facilita la transizione verso una società sempre meno caratterizzata da ritualità desuete, status consolidati, caste nobiliari e un mondo artificiale dove non conta il merito, ma solo il colore del tuo sangue.