Proprio in questi giorni l’organizzazione non governativa Save the Children ha diffuso alcuni dati sulla povertà educativa che dimostrano che l’Italia meridionale è fanalino di coda del Belpaese in termini di tassi di abbandono scolastico prima della scuola dell’obbligo. Le regioni settentrionali hanno una migliore performance, ma non mancano gli elementi di criticità. Povertà educativa non significa solo alto tasso di abbandono della scuola dell’obbligo, ma anche bassa quota di bambini che vanno all’asilo.
L’Unione europea indica la lotta alla dispersione scolastica fra gli obiettivi chiave di Europa 2020 (strategia di Lisbona). Secondo Europa 2020, ogni Paese Ue dovrebbe avere un indice di dispersione scolastica non superiore al 10%.
Europa 2020 può essere descritta come il cuore e l’anima della costruzione europea, mentre il Trattato di Maastricht e il Fiscal Compact, con i loro indicatori di stabilità monetaria, finanziaria e fiscale, rappresentano la testa del progetto europeo. Anche se poi è una testa girata un po’ a destra, in direzione monetarista, poiché presuppone che sia sufficiente garantire la stabilità monetaria e finanziaria per avere la crescita economica, ciò che non è, se non secondo alcune scuole ultra-liberiste di pensiero economico. In un certo senso, c’è una contraddizione fra Europa 2020 e i vincoli di Maastricht, poiché per raggiungere gli obiettivi di Europa 2020 occorre anche spendere in infrastrutture materiali ed immateriali, ciò che è in evidente contrasto con l’obiettivo del pareggio di bilancio, dato l’alto livello di debito pubblico dei Paesi periferici.
Come mostra la figura seguente (dati Istat), Il tasso di dispersione italiano per i giovani di età compresa fra i 18 e i 24 anni è sceso fra il 2013 e il 2014 al di sotto del target italiano (16%), ma è ancora di 4 punti percentuali superiore al target europeo (10%). In realtà, sono soprattutto gli uomini il “problema”, poiché le donne già a partire dal 2016 si avvicinano all’11%, non molto lontano dal livello di altri Paesi europei. È questo un altro dei campi dell’istruzione nei quali le donne surclassano gli uomini, anche in Italia.
La dispersione, soprattutto maschile, è legata alla povertà delle famiglie. I ragazzi spesso lasciano per motivi economici: devono contribuire alle magre finanze familiari. Bisogna far capire alle famiglie più povere che una gallina domani può essere migliore di un uovo oggi. Tuttavia, dato l’orizzonte temporale spesso assai limitato delle scelte dei giovani è importante riuscire a comprendere che incentivi anche economici esterni a quelli scolastici potrebbero avere un effetto importante per le famiglie più povere e bisognose.
Forse, l’assegnazione di un sussidio anche solo di centro euro al mese legato alla frequenza scolastica dei bambini appartenenti alle famiglie più bisognose (diciamo nella no-tax area) potrebbe aiutare. Sarebbe più di quanto un bambino riesce a guadagnare lavorando in nero. Nell’età della scuola superiore, il sussidio potrebbe essere legato allo svolgimento di un’attività di apprendistato, come nel modello tedesco. Grazie all’apprendistato scolastico che è un contratto a tre (datore di lavoro, studente e scuola), con uno stipendio medio di circa 600 euro, l’abbandono scolastico in Germania riguarda ormai quasi solo alcune fasce di nuovi immigrati e, perciò, con importanti problemi di integrazione sociale, culturale e linguistica prima ancora che scolastica.
Altro indicatore di povertà educativa è la percentuale bassissima dei bambini che frequentano l’asilo. Quasi nove bambini su dieci (87%) non vanno all’asilo nido o non frequentano servizi per la prima infanzia. In Calabria e Campania solo l’1,2% e il 2,6% rispettivamente può accedere a questi servizi. Il miglior risultato si registra in Emilia Romagna, dove la copertura di servizi per la prima infanzia non supera, però, il 25,6%.
Questo risultato dipende principalmente dalla insufficiente offerta di asili nido, soprattutto quelli pubblici, poiché quelli privati corrispondono più da vicino alle esigenze della domanda pagante, anche se a causa della scarsa offerta pubblica i costi di quelli privati sono altissimi e sono più alti al sud che al centro-nord. La maggiore offerta pubblica del Centro-Nord, un’offerta anche di maggiore qualità, spiega probabilmente anche i minori costi dei servizi privati di asilo al Nord.
Si pensi che secondo una indagine Istat recente il costo per bimbo di un asilo pubblico tocca i 3.400 € a Trento e i 2.950€ a Roma per scendere giù fino a 67€ a Catanzaro e 31€ a Reggio Calabria. È chiaro che, con tutti i suoi limiti, il costo è un indicatore della qualità. I fondi europei del Mezzogiorno potrebbero essere usati in modo massiccio per ridurre questo gap infrastrutturale rispetto al resto del Paese, come chiede l’Ue.