Sulle moto di Niamey si trasporta di tutto. Chi sta dietro carica uno specchio da salotto rinascimentale largo quanto le braccia oppure un vitello di medie proporzioni adagiato sul sedile . Fasci di legna, 4 o 5 bambini da portare a scuola con gli zaini colorati di rosa. Viaggia con una delle mogli che tiene a bada un sacco di riso coi condimenti. Sotto la Tabaski, alla fine del Ramadan appena iniziato, non sono rari i montoni o gli agnelli che prendono l’ultima aria libera. Il passeggero porta alcuni sacchi di fieno, bidoni di plastica per l’acqua, barre zigrinate per le costruzioni, tubi in plastica e letti da campo per la stagione calda. Altri materiali da costruzione sono occasionali e sovradimensionati. Le porte con vetri inseriti fungono da vele che orientano il tragitto della moto fino a destinazione. Questo è il paese reale di cui poco si parla.

Il Paese finto è quello dei migranti commercializzati alle agenzie e delle frontiere di sabbia che li seppellisce perché illegali come la vita dei poveri. La finzione si definisce tramite la modernizzazione dell’aeroporto già concepito, il progetto di un nuovo Palazzo dei Congressi e del potenziamento degli hotel della capitale. Oltre il terzo ponte sul fiume Niger si prevede un’estensione dell’illuminazione pubblica e altre strutture in grado di gestire la conferenza dell’Unione Africana l’anno prossimo. Sarà una capitale finta quella che le macchine diplomatiche solcheranno bloccando le attività cittadine di quotidiana sopravvivenza.

Il presidente riafferma l’aggettivo aggiunto al nome di Niamey ‘Nyala’, la ‘civettuola’. Niamey la capitale che tresca col potere della sabbia che l’assedia non appena il vento del deserto si ricorda di lei per sedurla. Pure finzioni per un Paese di sabbia nel quale è la povertà delle campagne a marcare la direzione dei giorni. Come una finzione accettata e interiorizzata è il percorso accademico dell’università statale e degli altri istituti di formazione superiore. Non parliamo dell’educazione scolastica elementare e media, che della polvere del Paese è immagine e somiglianza. Sono finzioni le elezioni, le opposizioni e il numero pletorico di partiti politici e gli strumenti di informazione. Finta la giustizia che non si è mai svincolata dal potere politico e riduce la costituzione a vuota retorica da Festa della Repubblica buona solo per piantare alberi fuori stagione. Sono finti i concorsi e i risultati, e sono finzioni i progetti di sviluppo finanziati da decenni di promesse mai mantenute. Finte sono, talvolta, le preghiere che addomesticano i fedeli come fa l’oppio.

La perfidia della finzione sta tutta lì. La realizzazione di un progetto di società per i pochi che viaggiano, circolano, investono, consumano e celebrano il loro successo. Sono le finzioni di coloro che passano da un congresso sulla siccità a un seminario sulla deradicalizzazione dei gruppi terroristi nel Sahel. La finzione dei dibattiti sui traffici illeciti di migranti, armi, sabbia, droga e missioni militari a tutto campo. La costruzione armata del terrorismo che finge di essere islamico per darsi un’identità e una strategia di polvere. Una città per pochi e l’esclusione di tutto un paese che la mendicanza resa istituzione fin dall’inizio rende accettabile.

Si vuole presentare all’occidente, accecato agli interessi, all’oriente cinese e indiano falsamente samaritano, un Paese inesistente, una pura finzione narrativa modellata dalla sabbia fine dell’incuria. Sulle moto di Niamey si trasporta di tutto. Le grosse signore con le borse di plastica colorata a striscie. I giovani che le cavalcano senza casco perché i vigili si sono stancati di fermarli e sequestrare le moto. I cortei che di notte, suonando, vanno alla casa dei futuri sposi sfidando i semafori che non funzionano. Passa la moto col necessario per aprire una bottega di commestibili. Dietro l’autista c’è l’amico che porta giraffe di gomma per la fiera davanti al palazzetto dello sport. L’altro conduce pezzi di bue appena macellato e la moto seguente porta una pila di pelle di animali seccata per farne borse per i pochi turisti da sbarco. C’è anche chi porta, senza darlo a vedere, la rivoluzione.

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