Appurato che ormai siamo al varo del governo giallo-verde con ampie striature di nero, vale la pena di piantarla lì con le previsioni sull’implosione della compagine e concentrarsi su quanto viene strombazzato come la grande innovazione politica del tempo: il Contratto e i suoi contenuti. Campo in cui i due contraenti hanno dato sfogo ai rispettivi umori progettuali. Il reddito di cittadinanza per Di Maio, il vasto arsenale reazionario per Salvini, che va dalla destra plutocratica della flat tax (a pagina 19 del Contratto. Un provvedimento che sembra un “Robin Hood alla rovescia” che toglie ai poveri per dare ai ricchi) alla destra pistolera della giustizia fai-da-te (pagina 22 del Contratto, la disposizione “difesa domiciliare sempre legittima” da America trumpista che brandisce una 44 magnum).

Dichiarando subito che i fascisti più o meno “neo” o “para” non li tocco nemmeno con un dito (quello con cui batto questo post), comprese le loro varie demenzialità, mi limito a prendere visione del testo sulla previdenza sociale a pag. 34. Per appurare che i Cinquestelle, capo politico compreso, quando parlano del tanto conclamato reddito che assicurerebbe cittadinanza a tutti, combattendo l’indigenza, dimostrano chiaramente che non sanno ciò che dicono.

Prendiamo la definizione che ne fornisce, in un volumetto de il Mulino, Stefano Toso, docente di Scienza delle finanze all’Università di Bologna: “Il reddito di cittadinanza è l’espressione più autenticamente universale di un welfare state che intende fornire una garanzia incondizionata di reddito a tutti, in quanto cittadini, a prescindere da qualsiasi caratteristica socio-economica (reddito, età, condizione professionale, disponibilità a lavorare)”; cui si contrappone “il reddito minimo” che consiste nel trasferire reddito a soggetti indigenti. Con l’ulteriore dato che la misura universalistica (Rdc) non è mai stata applicata; quella selettiva (Rm) è presente in quasi tutti i sistemi di welfare, eccetto Grecia e – guarda un po’ – Italia.

Non deve suscitare scandalo se autonominati “rivoluzionari” vogliono realizzare un sistema universalistico che altrove non c’è. Il problema – semmai – è che quanto presentano non ha nulla del tanto auspicato reddito di cittadinanza. Difatti, a pag. 34 del Contratto scrivono: “Il reddito di cittadinanza è una misura attiva rivolta ai cittadini italiani al fine di reinserirli nella vita sociale e lavorativa del Paese. Garantisce la dignità dell’individuo e funge da volano per esprimere le potenzialità lavorative del nostro Paese, favorendo la crescita occupazionale ed economica. […] Al fine di consentire il reinserimento nel mondo del lavoro, l’erogazione del Reddito di Cittadinanza presuppone un impegno attivo del beneficiario che dovrà aderire alle offerte di lavoro provenienti dai centri dell’impiego (massimo tre proposte nell’arco temporale di due anni) con decadenza del beneficio in caso di rifiuto”.

Insomma, nient’altro che un semplice sussidio alla disoccupazione. Ma la perdita di lavoro richiede altro per essere sanata: una politica industriale che promuova occupazione, di cui nel Contratto non c’è traccia. Soprattutto difetta la consapevolezza di chi davvero ha bisogno di un reddito per sopravvivere e riacquistare dignità: la distinzione tra povertà relativa (largamente occupazionale) e povertà assoluta, dipendente da quello che il sociologo Bauman chiamava “sottoconsumo”. Una sacca di miseria insanabile con l’occupabilità perché composta da soggetti non autosufficienti e spesso abbandonati (disabili e anziani in primis). Stando ai calcoli Istat 2016 una popolazione pari al 6,3% dell’intero campione nazionale. Ma di cui nessuno sembra interessarsi. Forse perché Di Maio, mal consigliato da qualche boccalone delle università virtuali che bazzica, confonde RdC e New Deal. Qui non si tratta di un volano per lo sviluppo, come l’investimento anticiclico keynesiano, ma di un semplice sussidio di sopravvivenza; socialmente benemerito quanto economicamente inerte. O forse perché i poveri assoluti non vanno a votare, quindi risultano un target di nessun interesse. Anche per giovani politicanti in carriera.

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