Giuseppe Conte – indicato da Di Maio e Salvini come possibile capo del governo M5s-Lega – è stato, tra l’altro, il legale della famiglia di Sofia: si era battuto affinché la bambina potesse seguire il protocollo di cura Stamina, metodo che in quei mesi fu bocciato dalla quasi totalità della comunità scientifica, nazionale ed internazionale, e da tutte le autorità sanitarie dello Stato e che ha prodotto anche diversi processi penali soprattutto nei confronti del promotore, l’allora docente in psicologia della comunicazione Davide Vannoni. Sofia era affetta da leucodistrofia metacromatica, malattia degenerativa terminale che porta a progressiva paralisi e cecità. E’ morta il 31 dicembre 2017.
Conte, durante il 2013, aiutò la famiglia della bambina a battersi nei tribunali perché il trattamento della bambina aveva subito diverse interruzioni, dopo l’apertura di alcune inchieste della magistratura sulla Stamina Foundation, nonostante i genitori avessero parlato di un sensibile miglioramento delle sue condizioni e si fossero battuti per farle proseguire la cura. Il protocollo era stato contestato anche dal ministero della Salute e dall’Agenzia italiana del farmaco e bollato come “dannoso“.
Conte era stato duro con la giustizia e con gli stop della cura imposti alla famiglia: “I tempi della malattia di Sofia e l’accelerazione da questa impressa non si confanno ai distinguo dei responsabili sanitari e ai tempi richiesti dalle verifiche giudiziarie in corso. Chiedo a tutte le autorità e a tutti i responsabili sanitari, come pure a tutti i nostri interlocutori in questa drammatica vicenda di assumersi la responsabilità – in scienza e coscienza, e ciascuno per quanto di sua competenza – di assicurare a Sofia il celere completamento del trattamento terapeutico già iniziato”. Conte appariva anche tra i promotori della fondazione “Voa Voa”, dal titolo del libro scritto dalla madre di Sofia, una fondazione creata durante il caso Stamina per sostenere la “libertà di cura“. La fondazione, promossa dall’attrice Gina Lollobrigida, aveva tra i primi beneficiari proprio la Fondazione Stamina di Vannoni. “Il professor Conte – ricorda Caterina Ceccuti, madre della bimba, all’Ansa – dimostrò una grande sensibilità alla causa di Sofia perché non volle nulla in cambio, lo fece pro bono, perché penso si sentisse toccato dalla vicenda avendo anche lui un figlio più o meno della stessa età”. Conte rappresentò la famiglia per alcuni mesi: “Prese in mano il caso quando avevamo già perso la causa a Firenze e cercavamo di nuovo l’accesso alle cure compassionevoli dell’istituto di Brescia attraverso il tribunale di Livorno”. Accettò, precisa Ceccuti, “anche per il fatto che la cura era regolarmente somministrata da un ospedale pubblico e che c’erano le basi per la continuità terapeutica: la bambina aveva già iniziato la terapia”.
Nel momento in cui Conte rappresentò nei tribunali la famiglia di Sofia, per il metodo Stamina la Procura di Torino aveva già chiesto da un anno 12 rinvii a giudizio dopo un’inchiesta di 3 anni per ipotesi di reato di somministrazione di farmaci imperfetti e pericolosi per la salute pubblica, truffa e associazione per delinquere. Dal 2011, peraltro, grazie al collaboratore di Vannoni Marino Andolina, il “metodo Stamina” veniva praticato come “cura compassionevole” all’ospedale di Brescia, ma dall’inizio del 2013 era stato tutto sospeso per via dell’ispezione di Nas e Aifa (che, come si scoprirà mesi dopo, si concluderà con un rapporto che sostenne che nei preparati cellulari non c’erano staminali e invece c’erano “inquinanti”). Prima della pronuncia finale delle autorità ministeriali, la comunità scientifica e media, a livello mondiale, si era più volte pronunciata in modo molto critico sul metodo Stamina: Nature, per esempio, nel luglio 2013 invitò il governo a non portare avanti la sperimentazione perché non basata su basi scientifiche. Le battaglie in tribunale condotte da Giuseppe Conte in rappresentanza della famiglia di Sofia, secondo l’archivio Ansa, sono proseguite almeno fino al novembre 2013.
E’ fondamentale ricordare che in quei mesi i tribunali di tutta Italia si divisero giorno dopo giorno su questa vicenda: alcuni continuavano a dare il via libera all’infusione di staminali, altri imponevano l’interruzione delle cure. Una discrezionalità da magistrato a magistrato dovuta anche al lungo vuoto legislativo di cui si è resa responsabile la politica. Una storia “italiana”, si potrebbe dire: nel maggio 2013 il Senato convertì in legge il decreto Balduzzi con voto bipartisan. In realtà la commissione ministeriale nominata due mesi dopo dal ministero della Salute, bocciò il metodo Vannoni. “Non c’è nulla di scientifico in questo metodo. Mancano presupposti di efficacia e razionalità” disse a ilfatto.it nel dicembre 2013 la senatrice a vita Elena Cattaneo, direttrice del laboratorio di Biologia delle cellule staminali all’università di Milano. Le conclusioni, nel corso degli anni, le hanno dato ragione.
Come ha stabilito un’indagine del Parlamento della legislatura precedente il via libera alla sperimentazione del metodo Stamina fu un ”errore del Parlamento”. “Casi analoghi non si dovranno ripetere mai più” ha spiegato la presidente della commissione Sanità Emilia Grazia De Biasi. Per la Cattaneo è “stata una frode, senza valore scientifico, un abuso verso i malati, ma in realtà il Paese aveva le competenze e gli strumenti per poter bloccare tutto questo”. L’ex ministro della Salute che aveva firmato il decreto per la sperimentazione Renato Balduzzi (ora componente del Csm) ha spiegato: “In quel momento fu un gesto di responsabilità intervenire in quel modo, data l’alta tensione che si era creata”.