Cronaca

Papa Francesco striglia i vescovi ma contro scandali e abusi non basta tagliare qualche testa

Papa Francesco sprona di nuovo i vescovi italiani. Aprendo i lavori della Cei, il pontefice ha collegato la caduta delle vocazioni per il sacerdozio e la vita religiosa non solo alla “cultura del provvisorio” che sembra contrassegnare l’epoca contemporanea, ma anche a fenomeni negativi che si verificano nella Chiesa: “scandali e testimonianza tiepida”. Francesco ha messo le mani avanti: il suo intento, ha detto, è di condividere con i vescovi alcune preoccupazioni “non per bastonarvi” ma per trovare soluzioni. In realtà ancora una volta il pontefice argentino ha sferzato la gerarchia ecclesiastica. La povertà, ha sottolineato, deve essere uno stile di vita reale. “Povertà evangelica e trasparenza” sono fondamentali. “Senza povertà non c’è zelo e non c’è vita di servizio agli altri”. Poi la frase più tagliente: “Chi crede non può parlare di povertà e vivere come un faraone“. E quindi in crescendo: “A volte si vedono queste cose… E’ una contro-testimonianza parlare di povertà e condurre una vita di lusso; ed è molto scandaloso trattare il denaro senza trasparenza o gestire i beni della Chiesa come fossero beni personali”.

Il Papa ha confessato che per lui sono dolorosi i fatti di cronaca, che parlano di ecclesiastici finiti a farsi manipolare in materia economica mettendosi in mani sbagliate o, peggio, che hanno “gestito in maniera disonesta” i beni affidati alla Chiesa. “Noi – ha concluso – abbiamo il dovere di gestire con esemplarità, attraverso regole chiare e comuni”.

Sono interventi da cui emerge ancora una volta la linea profetica di Francesco e il suo sforzo di stimolare una “conversione della Chiesa”. Il problema che si pone, tuttavia, è che una volta chiarita la strategia di una “Chiesa povera per i poveri” (come papa Bergoglio disse pochi giorni dopo la sua elezione alla stampa internazionale perché il suo messaggio arrivasse in tutto il mondo) è necessario fissare e decretare le regole necessarie. In Germania, tanto per fare un esempio, le Chiese e le confessioni religiose hanno il dovere di pubblicare i bilanci di tutte le loro proprietà. Altrimenti non possono richiedere sovvenzioni statali. In Italia una sola diocesi – quella di Padova – ha finora instaurato questa regola di trasparenza totale. O la Cei decide di imboccare questa strada, che permette ai fedeli cattolici e all’opinione pubblica di controllare efficacemente l’amministrazione dei beni ecclesiali, oppure anche i moniti papali rischiano di rimanere inascoltati.

Per il Papa stesso si impone la necessità di prestare grande cura all’emanazione di regole stringenti in ogni campo dove si manifestano “scandali”. Sarebbe un errore credere che la vicenda cilena, il mega-scandalo di abusi, connivenze e insabbiamenti, si possa considerare conclusa con le dimissioni in massa e il mea-culpa collettivo dei vescovi cileni dopo le consultazioni con il pontefice in Vaticano.

Intanto perché c’è qualcosa di opaco in questo apparente gesto di umiltà. Dimettendosi in blocco, i vescovi del Cile hanno infatti rinunciato a mettersi al lavoro nella propria conferenza episcopale per elaborare serie linee-guida valide per il futuro. Al contempo hanno rinunciato anche a prendersi la responsabilità di comunicare ai fedeli cileni e all’opinione pubblica della nazione chi tra di loro aveva abusato e chi aveva taciuto. Concretamente hanno gettato tutto nelle mani del pontefice, lasciando il lavoro difficile a lui.

Papa Francesco, dal canto suo, sa benissimo e lo ha detto ufficialmente che il problema non si risolve unicamente facendo cadere qualche testa (cosa peraltro assolutamente necessaria per rendere giustizia alle vittime) ma anche alla Santa Sede compete affrontare la questione abusi strutturalmente.

Questo vuol dire stabilire anzitutto l’obbligo generale per i vescovi di denunciare alle autorità civili gli autori di crimini in seno alle strutture ecclesiastiche. E poi significa riprendere l’idea di tribunali vaticani decentrati nei vari continenti a cui le vittime possano rivolgersi. Resta peraltro tuttora valida la richiesta che a suo tempo nel 2015 la Commissione vaticana per i minori rivolse al pontefice per istituire un tribunale speciale a cui denunciare i “vescovi negligenti”.

Il discorso tocca anche la Cei, che finalmente con la presidenza Bassetti ha istituito una commissione per affrontare il problema degli abusi a livello centrale. E’ importante però che si arrivi presto a conclusioni operative. Credere che l’Italia sia un’isola felice è un’illusione. Molti, tanti misfatti covano sotto la cenere.

Ma non è solo la Chiesa ad essere chiamata a compiere il proprio dovere. Il nuovo governo Verde-Stellato, che si profila e che promette maggiore rigore nell’applicazione della legge, dovrebbe imboccare la via legislativa della Francia e degli Stati Uniti, dove la gerarchia ecclesiastica non può nascondersi dietro falsi pretesti di autonomia ma ha il dovere di denunciare il prete-predatore. Per i dioscuri Di Maio e Salvini sarebbe una bella prova di coraggio e serietà.