“Nella tua vita sii regolare e ordinato come un borghese, così da poter essere violento e originale nella tua opera”. Addio Philip Roth. Lo scrittore statunitense è morto per insufficienza cardiaca congestizia la scorsa notte a New York. L’autore de Il Lamento di Portnoy e Pastorale americana aveva 85 anni. Dissacrante, corrosivo, esuberante, godibilissimo e leggibilissimo, Roth lascia un segno indelebile nell’ambito letterario americano e mondiale forse con un unico neo, ovviamente non dipendente da lui: quel Nobel per la letteratura tanto sventolatogli sotto al naso ma mai realmente vicino alla consegna. Ed in questa distanza incolmabile tra il mancato trionfo elitario del Nobel e l’assoluta popolarità del riservato letterato, che risiede la grandezza del romanziere: troppo letto, celebre e amato (almeno in patria) per diventare esempio universale.
Famiglia di origine ebraica europea, laurea alla Bucknell University e master in letteratura alla Chicago University, la carriera di Roth inizia all’improvviso con la notorietà sul finire degli anni sessanta (Il Lamento di Portnoy, 1969) e si conclude con inscalfibile autorità sul finire dei novanta con i capolavori Pastorale americana (1997), Ho sposato un comunista (1998), La macchia umana (2000). Nel corso delle sua lunga carriera Roth ha assunto molte sembianze letterarie: il celebre alter ego Nathan Zuckerman ad esempio, oppure David Kepesh, ma anche quel Philip Roth di Operazione Shylock che non era il vero Philip Roth, esplorando comunque sempre l’angoscia del singolo, sia in modo ironico che tragico, e cosa significhi essere un americano, un ebreo, uno scrittore, un uomo. Ha messo in primo piano con un linguaggio accessibile e mai criptico riflessioni profonde sull’identità, sulla paternità e sulla mortalità dell’uomo, immergendo il lettore in tour de force letterari sulle più recondite inquietudini della condizione umana, mantenendo in tutto questo una brillantezza di scrittura che l’ha portato ad essere tra gli autori più letti del ventesimo secolo.
L’ “angoscia” in versione comica esplode letteralmente nel ’69 con Il Lamento di Portnoy. La strabordante sessualità che non lascia requie al protagonista Alexander Portnoy è accoppiata ad un ovvio e contrastante senso di colpa morale dovuto all’educazione familiare e religiosa. Roth tratteggia fin da subito la doppiezza morale dell’uomo contemporaneo senza troppi infingimenti e a sfogliare ancora oggi il romanzo che gli diede notorietà mondiale non possiamo che ricordare, tra i tanti capitoli del libro, l’esilarante masturbazione a cui lo sottopone controvoglia l’amica Bubbles che si conclude per una strana traiettoria del destino con lo schizzo di sperma dentro al proprio occhio. La nostra gang (1971) e Il grande romanzo americano (1973), i titoli successivi allo scandalosa celebrità del Lamento di Portnoy sono l’uno un pamphlet politico anti Nixon non proprio memorabile, l’altro il tentativo già affrontato da Malamud e Coover, e successivamente in modo ancor più sottile da Don De Lillo con Underworld, di raccontare la storia americana utilizzando lo sport del baseball (De Lillo si concentrerà su una pallina da baseball…). Niente da fare: Roth però non vuole uscire dai canoni dell’alter ego che somiglia a sé ma che mai lo è del tutto. La mirabile e tenace cifra stilistica del suo autobiografismo è questa, e diventa una manna dal cielo con risultati altissimi. Intanto nel 1972 con Il seno inizia la trilogia con protagonista David Kepesh (Il professore di desiderio 1977 e L’animale morente 2001), professore di letteratura in un college della East Coast che indaga la presenza del desiderio e della passione nella letteratura contemporanea. Mentre nel 1974 in My life is a man appare la fugace traccia di Nathan Zuckerman che poi proromperà in Zuckerman scatenato (1981), La lezione di anatomia (1983) e L’orgia di Praga (1985).
Zuckerman, figura che filtra più con il comico e l’assurdo, capace di un’introspezione più profonda rispetto alla bulimia erotica di Kepesh, è anche l’anfitrione che in Pastorale americana, capolavoro di Roth del 1997, introduce uno dei personaggi più tragici e dolorosi della letteratura del romanziere statunitense: lo Svedese. Seymour Levov è il fratello di un amico che Zuckerman incontra ad un ritrovo di ex alunni. La storia che l’amico gli racconta in un lungo flashback è l’ascesa e la caduta di un esempio borghese della rinascita americana del dopoguerra. Lo svedese è stato il vincente, eccellente giocatore di football, famiglia armoniosa e moglie bella e premurosa, successo nella vita e negli affari (la fabbrica di guanti, che poesia). Poi all’improvviso lo sprofondo. La balbuziente e amata figlia Merry, proprio in mezzo alle contestazioni antiVietnam di fine anni sessanta cresce e si politicizza fino a mettere una bomba in un ufficio postale che provoca morti e feriti. La ragazza fugge scomparendo, e lo Svedese si strugge nel dolore cercandola ovunque nell’arco di cinque anni, raccogliendo i cocci di una vita distrutta mentre l’America comunque cambia a suon di morti e scandali politici.
Pastorale americana è sì il “grande romanzo americano” anche perché Roth si allontana dall’epiteto, e dalla grande famiglia, comunque limitante, della tradizione degli scrittori ebreo-americani (Saul Bellow, per dire), e fa partire la seconda trilogia di Zuckerman (Ho sposato un comunista, La macchia umana) dove il suo alter ego si mette come da parte e fa da osservatore delle vicende di uno scaricatore di porto sindacalizzato che diventa attore radiofonico di successo ma che poi viene travolto dalle accuse di maccartismo (Ho sposato un comunista); così come proprio mentre sta per andare in pensione l’affermato accademico Coleman Silk de La macchia umana finisce accusato di razzismo e vede finire la sua vita in mille pezzi, facendo emergere momenti del suo passato non proprio limpidi come si credeva che fossero. Il talento di Roth sta proprio nell’immergere il lettore in una spirale ammaliante del dolore marcata dalla distruzione dell’affermazione sociale dei protagonisti dei suoi racconti. Affermazione che crolla con l’incursione devastante dei grandi moti della storia e della politica nell’universo minimale privato del singolo. Eventi inspiegabili almeno nello spazio circoscritto di una famiglia, di una vita privata, che per molti biografi di Roth nascono dal trauma della prima moglie, Margaret Martinson, morta in un incidente stradale nel 1968. Il nucleo pulsante e poetico proprio delle opere massime di Roth è questo esplicito dannarsi dei suoi protagonisti nel capire se esiste una colpa lontana, profonda, nascosta in sé che ha portato alla disgrazia, alla caduta, all’inizio della fine di una vita che sembrava normale.
Negli anni duemila Roth torna con un libro all’anno dal 2004 al 2010, confermando, se ce ne fosse ancora bisogno la classe cristallina e lo scorrevolezza di una letteratura colta pronta per essere divorata da chiunque. Tra questi ricordiamo Il complotto contro l’America (2004) che è uno spassoso esempio di fantapolitica con Charles Lindbergh che al culmine della sua popolarità diventa presidente degli Stati Uniti. Tra l’altro Roth, ritaratosi ufficialmente dal mestiere di scrittore nel 2012, aveva rilasciato una delle sue rare interviste al New York Times nel gennaio del 2018 definendo l’attuale presidente Donald Trump un “arrogante buffone”. Nella stessa intervista aveva risposto con un coraggio e una forza d’animo mai doma ad una domanda sulla vita e la morte: “È come giocare a un gioco, giorno dopo giorno, un gioco ad alta posta che per ora, anche contro le probabilità, continuo a vincere. Vedremo quanto durerà la mia fortuna”