Ripugnante, disgustoso. Non userò mezze parole per descrivere l’editoriale “L’ultima battaglia di un uomo” pubblicato su Avvenire e firmato da Marina Corradi sul probabile femminicidio di Marina Angrilli che, come conferma l’autopsia, è stata spinta giù dal balcone, e l’assassinio cruento di sua figlia Ludovica di appena 10 anni. La bambina è stata lanciata giù da un viadotto da Fausto Filippone suicida dopo un probabile duplice crimine.

Come tanti vili esecutori dell’arcaica legge del possesso di mogli e figli, roba, beni, non-persone, Filippone si è sottratto al peso delle sue responsabilità e anche al dovere della verità su due morti inique. Prima di uccidersi ha detto ad un poliziotto “Mia moglie ha qualcosa da farsi perdonare”. Si era già auto-assolto mentre chiedeva “scusa” alla bambina uccisa, una parola inadeguata per un crimine così efferato. Se è giusto accantonare sentimenti di vendetta nei confronti di un assassino e lasciare spazio a quel sentimento di civile pietà per chi si macchia del peggiore dei crimini è indegno per la stampa di un Paese civile empatizzare e solidarizzare con chi li commette. O ancora peggio, sovvertire la narrazione di azioni criminali, estetizzarle, raccontarla come atti che rievocano addirittura l’eroismo.

In questi giorni abbiamo letto pessimi articoli sull’assassinio di Ludovica (e forse anche della madre) che hanno fatto scomparire l’orrore della violenza di un uomo “nella famiglia per bene dai solidi valori”, “nell’imprenditore lavoratore”, nella “triplice tragedia”. Un punto di vista pericoloso e iniquo che pone sullo stesso piano l’assassino e le vittime con uno sfregio alla verità e alla giustizia. Dove sono le parole di empatia per la sorte di Marina e Ludovica, dove il rimpianto per le loro vite che non ci sono più e dove lo stigma per il crimine e la condanna netta e senza se e ma di gesti violenti?

Non abbiamo letto nulla di tutto questo in molti articoli. Ma l’articolo di Martina Corradi è particolarmente ripugnante perché dopo l’empatia a profusione nei confronti di un assassino e la rimozione del problema della violenza maschile nelle relazioni di intimità, descrive Fausto Filippone come un “soldato caduto”. Se il probabile duplice femminicidio viene presentato come un atto di eroismo quale scelta sta facendo Marco Tarquinio, il direttore di Avvenire, nei confronti di un fenomeno che causa in Italia una donna uccisa ogni tre giorni? E nei confronti del fenomeno ad esso collegato, quello dell’assassinio dei figli e delle figlie?

“Il soldato caduto” ha sollevato sopra una rete di recinzione una bambina i 10 anni, prima di lanciarla nel vuoto. Ludovica avrà urlato? Avrà pianto? Implorato? Avrà invocato un aiuto che non arrivava? Avrà chiamato la madre? O sarà rimasta paralizzata dal terrore e dell’angoscia mentre lo strapiombo di 40 metri si spalancava sotto di lei e la inghiottiva con una morte violenta, iniqua e prematura. Un volo di 40 metri non si esaurisce in un secondo. C’è tempo, c’è tutto il tempo per capire.

Nella distorsione della narrazione emerge involontariamente un lapsus, una realtà denunciata dal pensiero femminista e dalle attiviste dei diritti delle donne, quella guerra che una cultura patriarcale, millenaria, conduce contro le donne e le bambine: cultura del dominio che arrogava al padre il diritto di vita e di morte per legge. La norma che concedeva un’attenuante a chi uccidesse mogli e sorelle o figlie è stata abolita solo nel 1981 ma i pilastri su cui si reggeva fanno sentire gli effetti ancora oggi nella narrazione comune e anche nei media.

@nadiesdaa

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