Una “specie di enciclopedia” in cui trovano spazio “il liberismo, il solidarismo, il keynesismo, le idee di Adam Smith sull’intervento statale a difesa dei beni pubblici. Ma soprattutto il sovranismo. Che in campo economico si traduce nel descrivere i problemi a metà e individuare la soluzione più semplice: promettere diritti senza doveri e responsabilità”. Per l’economista Francesco Daveri, docente alla Sda Bocconi, è questa la chiave per spiegarsi come nella versione definitiva del contratto di governo tra Lega e M5s stiano insieme per esempio la flat tax (diventata “dual”) anche per le imprese – e con aliquote inferiori a quelle volute da Donald Trump per “rifare grande l’America” – e una “banca per gli investimenti e lo sviluppo” con “esplicita e diretta garanzia dello Stato” ancora più interventista della Cassa depositi e prestiti. Oppure come, concettualmente, la promessa di più welfare familiare e del reddito di cittadinanza possa andare a braccetto con una riforma dell’Irpef i cui vantaggi andrebbero in larghissima parte alla piccola fascia di italiani che dichiara più di 100mila euro.
Al di là del nodo coperture (stando ai primi calcoli mancano all’appello almeno 100 miliardi di euro), quello che colpisce delle proposte economiche sottoscritte da Di Maio e Salvini è proprio il mix di politiche neoliberiste e interventismo dello Stato in economia. Ma gli esperti contattati dal fattoquotidiano.it una matrice comune la vedono eccome: dall’economista Roberto Perotti allo storico dell’industria ed esperto di relazioni sindacali Giuseppe Berta fino al docente di storia del pensiero economico Luca Fantacci, tutti concordano sul fatto che il minimo comune denominatore è l’idea che la mano pubblica debba tornare a metter mano pesantemente nell’economia mettendo gli “interessi nazionali” davanti agli impegni presi con i partner europei. Il paradosso è che il punto di caduta non piace né ai vertici di Confindustria né al sindacato. E c’è il rischio, avverte Marcello Messori, di prendere “una deriva da cui potrebbe sfociare una reazione delle istituzioni Ue” anticipata dall’impossibilità di collocare il nostro debito sui mercati”. Anche se mercoledì, nel suo primo discorso dopo aver ottenuto l’incarico, il premier designato Giuseppe Conte su sollecitazione del Colle ha citato la necessità per il governo di rispettare i principi della Costituzione. Compreso l’articolo 81 sul pareggio di bilancio.
Perotti: “I collanti sono l’odio per la legge Fornero e l’antieurismo” – L’economista bocconiano Roberto Perotti, ex commissario alla spending review del governo Renzi, individua come principali collanti del contratto di governo gialloverde “l’odio per la legge Fornero e l’antieurismo, forma estrema del sovranismo, ora messo in sordina solo per esigenze pratiche”. Ma “la radice”, argomenta, “è l’idea molto italiana (e condivisa da altre forze politiche) che la soluzione ai nostri problemi economici possa arrivare da una “frustata” di spesa pubblica ad alto moltiplicatore, cioè con forte impatto sul pil. Un’idea basata sulla mancata comprensione del funzionamento dell’economia moderna. Anche il reddito di cittadinanza viene motivato così, sostenendo che favorirà la crescita“. Su questa base le due forze hanno poi innestato parti dei propri programmi, dalla flat tax – “di cui secondo me chi ha votato il contratto non ha capito le conseguenze” – al superamento della Fornero con la possibilità di uscire dal lavoro quando la somma dell’età e degli anni di contributi è pari a 100 e “l’obiettivo di consentire il raggiungimento dell’età pensionabile con 41 anni di anzianità contributiva“.
Mix di liberismo e interventismo che scontenta Confindustria e sindacato – Il paradosso è che il punto di caduta non piace né alla Confindustria né al sindacato: i primi temono i costi e la reazione dei mercati, la Cgil lamenta la “mancanza di visione sociale”, i ritocchi “insufficienti” alla legge Fornero sulle pensioni e i contenuti del capitolo dedicato al lavoro. Che si apre sulla necessità di un salario minimo garantito, ma non fa cenno alla necessità di modifiche al Jobs Act e prevede la reintroduzione di strumenti simili ai voucher per pagare le prestazioni accessorie. Per non parlare del paragrafo dedicato all‘Ilva, in cui si parla di “riconversione economica” attraverso la “progressiva chiusura delle fonti inquinanti“, pur “proteggendo i livelli occupazionali” (con risorse pubbliche?). Tutti esempi, secondo Daveri, della tendenza a non fare i conti con la parte meno gradevole delle conseguenze: “Si scrive che il bail in va ridiscusso per “tutelare il risparmio” ma non si dice che l’alternativa è tornare a risolvere le crisi bancarie con soldi pubblici. Si scrive che “è opportuno il ritiro delle sanzioni alla Russia” ma senza spiegare cosa intendiamo fare se Putin invade un Paese vicino. Si vuol far saltare la vendita dell’Ilva a un investitore straniero. E poi?”.
“In comune il progetto di aumentare la regolazione pubblica in economia” – E poi lo Stato, risponde Giuseppe Berta, storico che da decenni studia lo sviluppo dell’industria italiana. “In controluce nel contratto vedo il tentativo di rispondere alla forte domanda di regolazione pubblica che attraversa tutto l’Occidente”, spiega il docente. Una domanda che accomuna “l’America di Trump, per certi versi un liberista estremo che però sta usando i poteri dello Stato per riportare la produzione industriale in territorio statunitense”, e il “comunitarismo su cui si basa il programma di Jeremy Corbyn“, leader dei laburisti britannici. Di qui la “banca per lo sviluppo” e, tra il resto, la tentazione di mantenere il Monte dei Paschi di Siena in mani pubbliche. “Il problema però è capire come interpretare in chiave moderna questo interventismo pubblico in economia…”
La scommessa sulla possibilità di ridiscutere i vincoli Ue – Quanto alla necessità – ribadita nel contratto – di una “ridiscussione dei trattati Ue e del quadro normativo a livello europeo”, secondo Berta la scommessa dei due contraenti è che i partner non potranno dire di no perché “l’Italia non è la Grecia. E se ci tratteranno come Tsipras e Varoufakis, rifiutando di arrivare a un compromesso, la conseguenza sarà far saltare l’euro“. “Nel mettere insieme il contratto non c’è stata una ricerca di coerenza e di sostenibilità”, conclude Marcello Messori, professore di economia alla Luiss e direttore della Luiss School of European Political Economy. “Il rischio è che veniamo emarginati dal processo decisionale europeo e che, nel tentativo di realizzare misure non compatibili con la nostra finanza pubblica, prendiamo una deriva da cui potrebbe sfociare una reazione delle istituzioni Ue. Forse anticipata dalla difficoltà a collocare il nostro debito sui mercati”.