“Il prossimo big short? E’ sull’Italia”. Una battuta, ma neanche tanto: basta guardare l’andamento dello spread e quello dei titoli del settore bancario per rendersi conto che la “benevola neutralità” con cui i mercati hanno guardato all’Italia nel lungo periodo post-elettorale è finita. Lo spread è balzato oltre quota 200 (è arrivato anche a 216 punti per poi assestarsi intorno a 204), ai massimi degli ultimi quattro anni, e – ciò che più conta – è tornato a crescere anche il differenziale di rendimento tra i titoli di Stato italiani e quelli spagnoli, nonostante lo scandalo politico che ha investito il governo di Mariano Rajoy e la scelta di Madrid di andare a elezioni anticipate per evitare il voto di sfiducia del Parlamento. Insomma, in questa fase l’Italia viene percepita ancora una volta come una fonte potenziale di rischio sistemico: lo scrive nero su bianco Goldman Sachs nel suo “Global Markets Daily”.
Pur ritenendo ancora bassa la probabilità che un rialzo dello spread legato alla formazione del governo M5S-Lega possa creare rischi sistemici all’Eurozona, Goldman Sachs non lo esclude nemmeno e, anzi, sottolinea come in questo scenario il primo Paese membro a farne le spese (o per lo meno quello che pagherebbe il conto più salato) sarebbe il Portogallo, la cui “sensibilità alle variabili di stress dell’Unione monetaria è circa doppia rispetto alla Spagna”. Nessuno (ancora) drammatizza, ma si iniziano a tracciare diversi scenari e il mercato non resta certo a guardare: da un lato si vendono Btp, dall’altro si acquistano Treasury bond statunitensi e, soprattutto, Bund decennali tedeschi i cui rendimenti nel corso delle contrattazioni sono letteralmente crollati (-17%), mentre il rendimento dei decennali italiani è schizzato oltre il 2,5%. E per fortuna che la Bce contribuisce a calmierare i movimenti di mercato e a evitare innalzamenti troppo bruschi dello spread grazie ai suoi massicci acquisti di titoli pubblici.
Ma se lo spread più di tanto non si può muovere, la fluttuazione delle azioni non è limitata dagli acquisti della Bce e i titoli bancari tornano dunque a essere il termometro più rappresentativo del rischio-Italia, proprio per via della debolezza del nostro sistema del credito e per il fatto che gli istituti hanno in portafoglio una quota molto rilevante del debito pubblico italiano. Inutile sottolineare come il 25 maggio sia stato l’ennesimo venerdì nero per il comparto. A guidare le danze in negativo Banco Bpm che ha lasciato sul terreno oltre il 7%. E anche qui a ben vedere c’è lo zampino di Goldman Sachs che ha abbassato la raccomandazione sul titolo da “buy” a “neutral” e ha ridotto il prezzo obiettivo da 4 a 3,30 euro, innescando così l’ondata di vendite. Ma la grandinata non ha lasciato immune praticamente nessun titolo bancario: Fineco e Mediobanca hanno perso più del 4%, Unicredit e Intesa Sanpaolo oltre il 3%, Mps il 4,5%, Carige il 3,61% e così via. Le ragioni sono molteplici e hanno anche un forte côté politico: Movimento 5 Stelle e Lega sono visti come forze decise a rimettere in discussione (e non in meglio) quel poco che è stato finora fatto sul fronte bancario.
Sotto questo profilo sono viste come forze della conservazione, potenzialmente (e anche praticamente) capaci di mettere i bastoni tra le ruote al processo di consolidamento settoriale anziché dare una spinta, capaci di modificare le norme introdotte dai precedenti governi per velocizzare il recupero dei crediti in sofferenza allungando i tempi (nel contratto di governo si parla esplicitamente di soppressione delle norme che riguardano la possibilità di agire contro i debitori senza un pronunciamento dell’autorità giudiziaria). Queste cose, tanto più in un quadro che ci vede più esposti degli altri Paesi per la quantità di non performing loans nei bilanci delle banche e di titoli di Stato nei portafogli delle stesse, non ci aiutano per niente e contribuiscono a rafforzare la percezione negativa e il pregiudizio sull’affidabilità del Paese e sulla sua capacità di riforma.
Del resto, un piccolo antipasto di governo “gialloverde” lo aveva dato pochi giorni fa il leghista Claudio Borghi esprimendosi a mercato aperto sul futuro di Mps e sulla necessità di abbandonare la strada della vendita per arrivare a una nazionalizzazione completa. Opinioni che riflettono un indirizzo sulle banche “pre-moderno” che prefigura un rafforzamento del legame banche-politica anziché una netta cesura e che fa carta straccia non solo di un piano industriale (per quello che può valere), ma anche e soprattutto degli impegni presi con l’Europa per il salvataggio della banca: l’impegno a vendere e uscire dal capitale in un arco di tempo ragionevole (qualche anno). Date queste premesse, è del tutto ovvio che i titoli bancari tornino al centro delle vendite a Piazza Affari. Se poi a tutto questo si aggiunge che qualcuno ha iniziato a fare due conti sull’ipotesi di applicazione alle banche della flat tax all’italiana (il Sole 24 Ore preferisce chiamarla dual tax) per scoprire che – in assenza di correttivi – avrebbe un impatto catastrofico sui conti del sistema creditizio (si parla di una perdita che oscilla tra i 3,1 e i 5,3 miliardi di euro) e che costringerebbe alcuni istituti a varare nuovi aumenti di capitale per ripristinare i requisiti patrimoniali minimi, si capisce bene che il clima inizia a farsi pesante.
L’altro aspetto, tutto politico ma con riflessi economici pesantissimi, è la debolezza italiana sui tavoli europei. Venerdì 25 è stato un venerdì nero anche in Europa, dove sono state approvate le nuove regole in tema di riduzione dei rischi bancari con l’introduzione di un “buffer” di liquidità che costringe gli istituti a finanziare le attività di lungo termine con fonti stabili e un livello minimo di capacità di assorbimento delle perdite che consentirà la risoluzione di banche “globalmente sistemiche”, anche straniere, senza contraccolpi eccessivi e senza creare effetti domino. Per l’Italia, unica astenuta assieme alla Grecia, è l’ennesima sconfitta riportata sui tavoli negoziali di Bruxelles. La condivisione dei rischi, con la creazione di un fondo europeo salva-banche, resta una chimera utilizzata dai grandi come la classica carota da mostrare all’asino. L’Unione bancaria resta incompiuta e sbilanciata a favore delle garanzie verso la Germania e i suoi alleati. In questo quadro non si vede come il nascituro governo “gialloverde” – con il carico di ambiguità che si porta dietro in materia di euro e di Europa – possa riuscire a spezzare l’isolamento italiano. Un isolamento che è sì politico, ma che è anche alimentato dalla scarsa credibilità dimostrata da chi ha diretto il Paese in questi tormentati decenni. E a questo proposito varrebbe la pena chiedersi se schierare all’Ecofin un ministro del Tesoro come Paolo Savona – come vorrebbe Matteo Salvini – aiuterebbe a far avanzare le ragioni dell’Italia al tavolo negoziale. A quanto pare molti sono convinti di no.