“Ho polverizzato la mia coscienza per dare spazio a un delirio di onnipotenza”. A parlare è Roberto Cannavò, che sta scontando l’ergastolo nel carcere di Opera, a Milano. La sua è una storia di mafia, di morte e di rinascita. Lo spiega in un’aula piena di ragazzi. Alle sue spalle l’immagine ormai diventata icona di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e la scritta ‘Gli uomini passano. Le idee restano’. L’occasione è un evento organizzato alla scuola professionale Galdus di Milano per ricordare la strage di Capaci e parlare di legalità ai giovani studenti. Soprattutto attraverso le testimonianze di quattro detenuti, tre dei quali condannati al fine pena mai: sono gli ergastolani Cannavò, Alessandro Crisafulli e Adriano Sannino, condannati per reati commessi quando erano parte del crimine organizzato e Antonio Tango, a cui mancano invece da scontare 5 anni, dopo aver girato 20 carceri in tutta Italia. “Eppure io dietro le sbarre mi sono sentito libero per la prima volta, perché la vera galera per me è stata quella mentale”, dice. Questi uomini fanno parte del Gruppo della trasgressione, un progetto nato nelle carceri di Opera, Bollate e San Vittore e seguito dallo psicologo Angelo Aparo per il recupero di detenuti e il loro inserimento nella comunità. Ma come si è arrivati a questo? Come può un uomo sentirsi “libero per la prima volta” dietro le sbarre?
La verità è che la storia di Falcone e Borsellino non finisce quando muoiono
Il ricordo di Falcone – Per capirlo si parte proprio dal ricordo dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, dal ruolo che nella storia hanno avuto nella difesa della legalità, dello Stato e nella lotta alla mafia. Sono morti per difendere ciò che altri volevano distruggere. Sono morti parlandone ai giovani, combattendo l’omertà. Così questi detenuti che ieri distruggevano oggi vogliono ricostruire e vogliono dare continuità a quel messaggio che, in alcuni casi, loro stessi hanno cercato di fermare. Un messaggio vivo tuttora. Lo ha ricordato il giornalista del Corriere della Sera Paolo Foschini, che ha moderato l’incontro: “La verità è che la storia di Falcone e Borsellino non finisce quando muoiono”. E non è finita anche perché oggi c’è molta più consapevolezza tra i giovani di quello che rappresenta la mafia. Come diceva Borsellino “se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”. Melania Rizzoli, assessore all’Istruzione della Regione Lombardia, ha raccontato ai ragazzi di quando, in una serata in una casa romana dell’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli, a un certo punto arrivò Falcone a bordo di una Fiat 500 gialla. Erano le 22 e il giudice aveva liquidato la scorta dicendo che sarebbe andato a letto. Invece aveva raggiunto gli amici perché aveva bisogno di staccare la spina. Non sarebbe stata l’ultima volta. Quando lei stessa gli chiese come mai l’avesse fatto e se non avesse paura di andare in giro da solo, lui le rispose con una frase che poi avrebbe ripetuto anche in altre occasioni: “L’importante non è stabilire se si ha paura, ma saperci convivere e non farsi condizionare. Se non si ha paura si è incoscienti e io non sono né incosciente né vigliacco. Perché chi è vigliacco non muore una sola volta, ma 100 volte al giorno”.
Come può un uomo sentirsi “libero per la prima volta” dietro le sbarre?
La rinascita dopo il fine pena mai – E sono morti più volte al giorno, nella loro precedente vita, anche Roberto Cannavò, Alessandro Crisafulli, Adriano Sannino e Antonio Tango. È stato lo stesso Cannavò, in una lettera inviata ai magistrati di Torino nel 2014, a confessare di essere l’esecutore materiale dell’omicidio del venditore ambulante Agatino Razzano, avvenuto alle porte di Torino l’8 giugno 1992. Lo uccise per un regolamento di conti a colpi di pistola, scatenando il panico tra le bancarelle del mercato di Moncalieri. Razzano avrebbe rubato 150 milioni di lire al clan del boss catanese Santo Mazzei, in carcere da 25 anni in regime di 41 bis. Quei soldi erano stati raccolti dagli affiliati dell’area torinese per il mantenimento in carcere di un detenuto. A quei tempi a Torino gli ‘affari’ erano gestiti dal clan dei Cursoti Catanesi, prima che arrivassero la ‘ndrangheta e i processi. Cannavò uccise Razzano e tornò in Sicilia tre giorni dopo. Una volta arrestato Cannavò ha scontato due anni di isolamento diurno ed è lì che è iniziato un percorso nuovo. Poi, dopo una serie di corsi di formazione, nel 2012 è arrivato il Gruppo della trasgressione. Ne fa parte anche l’ex boss di Quarto Oggiaro Alessandro Crisafulli, che fino agli anni Novanta ha controllato le piazze dello spaccio milanesi. In cella ha già trascorso quasi un quarto di secolo ed è stato condannato all’ergastolo per due omicidi, associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga e altri reati. “Mio padre sosteneva che bisognava prendersi con la forza quello che si voleva – racconta -. Sono cresciuto assaporando il male di vita e io ho contribuito ad alimentarlo”. Anche per lui, incredibilmente, l’arresto è stata una liberazione: “Ero stanco di quella vita maledetta, mentre nel carcere ho sentito che potevo ritrovare quella parte di me sepolta dall’immondizia”. Nel carcere di Opera c’è anche Adriano Sannino, un passato nel clan Formicola di San Giovanni a Teduccio, alla periferia di Napoli. È accusato dell’omicidio del boss Salvatore Cuccaro, avvenuto nel ’96 scatenando una guerra di camorra che culminò nell’omicidio del 14enne Giovannino Gargiulo. “Vivevo come uno scarafaggio, oggi apprezzo il fatto di stare con le persone e trovo che non ci sia cosa più bella di poter lavorare. Per questo è importante il sostegno al Gruppo della Trasgressione” spiega.
Vivevo come uno scarafaggio, oggi trovo che non ci sia cosa più bella di poter lavorare
Uccidere e uccidere se stessi – Uno dei ragazzi della scuola Galdus, Riccardo, fa una domanda: “Quanti ne avete ammazzati?”. Forse a certe domande saranno anche abituati, ma pesano come un macigno. Infatti nessuno risponde con un numero, perché il dolore procurato non si può contare. E c’è chi a stento trattiene l’emozione. Tutti hanno ucciso più volte (lo dicono), tranne Antonio Tango. “Ho ucciso più volte me stesso e quelli a cui ho fatto del male, anche se non ho tolto loro la vita in modo fisico”, spiega. Crisafulli ha scritto più volte alla sorella di Roberto Messina, ucciso nel 1989 in un regolamento di conti a Novate Milanese. “Non si può ripagare una vita umana – sottolinea Silvio Di Gregorio, direttore del carcere di Opera – ma noi facciamo di tutto per ricucire quello strappo con la società. D’altro canto lo scopo del carcere è quello di favorire un cambiamento e anche la nostra costituzione parla di pena come rieducazione in vista di un reinserimento nella società”.
C’è chi ha passato tutta la vita a lottare per il cambiamento, cercando di dimostrare che nella vita è sempre possibile scegliere, anche qualora si sia nati e cresciuti in una famiglia malavitosa. Non solo Falcone e Borsellino, ma anche i giornalisti Mario Francese, Giancarlo Siani e Carmine Pecorelli, Peppino Impastato, Pio La Torre e molti altri. Con il titolo ‘I nemici del silenzio’, gli studenti di Galdus hanno realizzato volantini monografici di approfondimento su questi uomini, ricordando la frase di Peppino Impastato ‘La mafia uccide, il silenzio pure’.