Il suo ultimo libro, I sette peccati capitali dell’economia italiana, si apre con tre citazioni: Totò e Aldo Fabrizi da I tartassati, Piero Gobetti e Jovanotti. Una vecchia canzone del ’91, Muoviti muoviti, che fa: “Ma non nascondo neanche la voglia che ho di dare un posto decente a quel figlio che avrò / forse fra un giorno fra un mese o fra vent’anni / non sarà giusto che lui paghi i miei danni“. Quali siano i danni che vedeva all’orizzonte, Carlo Cottarelli lo ha ripetuto più volte negli ultimi cinque mesi: “Di solito le persone sono preoccupate che i partiti non mantengano le promesse elettorali. Io al contrario sono preoccupato che siano mantenute“. Non perché per l’ex funzionario del Fondo monetario internazionale (ha guidato il dipartimento Affari fiscali ed è stato direttore esecutivo per Italia, Albania, Grecia, Malta, Portogallo e San Marino) ed ex commissario alla spending review di Enrico Letta e Matteo Renzi non sia necessario tagliare le tasse e semplificare il fisco o far di più per la povertà assoluta. Ma perché prevedere interventi per oltre 100 miliardi di euro senza badare alle conseguenze per la finanza pubblica – leggi: aumentando il deficit – vuol dire aggiungere altra zavorra a un’economia che già arranca pure quando gli altri corrono. E significa perdere l’occasione di fare le riforme e mettere i conti in ordine prima che la Bce smetta di comprare titoli di Stato. Lasciando l’Italia esposta ai mercati come e peggio che nel 2011. Son quelli i “danni” che qualcuno, poi, dovrebbe pagare.
Per Cottarelli, a cui lunedì mattina Sergio Mattarella ha affidato l’incarico di formare un esecutivo”del presidente”, la tabella di marcia va rovesciata. L’economista cremonese – 64 anni, ora visiting professor alla Bocconi, una carriera iniziata nel Servizio studi di Bankitalia – l’ha spiegato molto bene nei sette capitoli del saggio sui Peccati capitali, che è uscito poco prima del voto del 4 marzo e forse per questo ricorda tanto un programma di governo. Prima si tagliano le spese inutili compresi i “bonus elettorali” e i sussidi inutili, con l’obiettivo di congelare la spesa corrente al netto degli interessi sul debito (con l’effetto tra l’altro di recuperare i 12,5 miliardi che servono per evitare gli aumenti Iva) e arrivare al pareggio di bilancio. Per quella strada si riduce gradualmente il rapporto debito/pil che ha toccato il 131,8%. Solo dopo si può pensare di ridurre le aliquote fiscali per dare una spinta alla crescita e aiutare le imprese esportatrici e si possono investire risorse per sostenere seriamente la natalità (invece della “miscellanea di interventi spesso a tempo determinato” degli ultimi anni) e migliorare le infrastrutture scolastiche. Nel frattempo occorre fare una seria lotta all’evasione, che sottrae allo Stato oltre 100 miliardi l’anno, e iniziare ad affrontare gli altri “peccati”, dalla corruzione all’eccesso di burocrazia alla lentezza della giustizia fino al divario Nord-Sud. Così si allontana anche la tentazione di uscire dall’euro, “un errore” perché “è come dire che è meglio giocare in serie B perché continuiamo a perdere in serie A”. Parole da sottolineare in rosso dopo il no del Quirinale su Paolo Savona al Tesoro motivato dalle posizioni euroscettiche dell’economista che hanno “posto in allarme investitori italiani e stranieri che hanno investito in titoli e aziende” prefigurando “rischi per famiglie e cittadini”.
Ora il fondatore dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’università Cattolica, che per tutta la campagna elettorale ha fatto le pulci ai programmi dei partiti, si prepara a togliere il cappello da “cane da guardia” e prendere le redini. Il cortocircuito delle ultime ore, con la rinuncia al mandato da parte di Giuseppe Conte, ha concretizzato lo scenario che il 13 marzo gli sembrava probabile quanto la convocazione da parte dell’Inter “per giocare al posto di Icardi“, che il 7 maggio allontanava come un amaro calice (“la prima emergenza è la legge elettorale, è più indicato un giurista”) chiarendo però di non essere “uno che si tira indietro” e che il 18 maggio ammetteva essere un’opzione da non escludere ma a una condizione. Sempre la stessa: “Mettere a posto i conti pubblici”. Quel che negli ultimi quattro anni i governi Renzi e Gentiloni non hanno fatto perché – come Cottarelli ha spiegato al fattoquotidiano.it lo scorso novembre – “invece che risanare i conti, hanno preferito ridurre un po’ le tasse, per esempio con il bonus Irpef di 80 euro e l’eliminazione dell’Imu prima casa, senza tagliare la spesa. Forse per comprarsi qualche punto in più di crescita. O, a essere malevoli, per cercare di vincere un’elezione o un referendum“.
Per lo stesso motivo i suoi 19 dossier di “proposte per la revisione della spesa pubblica” (apprezzate in seguito dal Movimento 5 Stelle che intendeva rilanciarle per trovare coperture al reddito di cittadinanza) sono rimasti a lungo nei cassetti di Palazzo Chigi. Troppo impopolare parlare di tagli alle pensioni d’oro non giustificate dai contributi versati o di eliminazione dei mille sussidi alle imprese. Improponibile ridurre del 10% gli stipendi dei dirigenti pubblici (“L’unico provvedimento è stato un tetto di 240mila euro, che ha comportato un taglio solo a une trentina di persone compreso il Commissario stesso”). “Mentre ero lì che cercavo di tagliare la spesa” di 34 miliardi, “passavano provvedimenti che la aumentavano”, ha raccontato l’economista facendo il bilancio dei 12 mesi trascorsi a Roma facendo “il pendolare transatlantico con Washington” dove ancora viveva la famiglia. Le uscite correnti, così, lievitavano. Com’è finita si sa: “Non dobbiamo delegare ai tecnici il compito di governare”, spiegò Matteo Renzi. Ora il tecnico scende in campo tra mille incognite, a partire dalla possibilità di ottenere la fiducia. Il programma per affrontare i “vizi” italiani e rimettere l’economia in carreggiata, però, è già nello zainetto che usa al posto della 24 ore. E’ in quel libro che nella chiusa torna a citare una frase scritta da Gobetti nel 1918, sei anni prima che l’autore de La rivoluzione liberale fosse selvaggiamente picchiato da una squadra fascista. “Come non bastano le antiche glorie a darci la grandezza presente, così non bastano i presenti difetti a toglierci la grandezza futura, se sappiamo volere, se vogliamo sinceramente rinnovarci”. Per Cottarelli sono parole “ancora attuali”, perché “quella volta gli italiani imboccarono la strada sbagliata. Non dovrà essere così questa volta”.