“In teoria i problemi italiani, un debito pubblico elevato e una bassa crescita e competitività, potrebbero essere risolti uscendo dall’euro. Però bisogna essere chiari sul modo in cui e sul perché l’uscita aiuterebbe a risolvere questi problemi, cosa che spesso i suoi sostenitori non fanno”. In pratica, “questo avverrebbe al prezzo di un taglio dei salari reali, di una tassa da inflazione e solo dopo un periodo che sarebbe molto turbolento anche per via degli effetti di bilancio che accompagnano una svalutazione e dello sconvolgimento del sistema dei pagamenti”. Un periodo turbolento durante il quale gli effetti della perdita di valore della nuova moneta rispetto all’euro “potrebbero essere molto forti e mandare in bancarotta parecchie famiglie e imprese“. E’ il ragionamento che il premier incaricato Carlo Cottarelli sviluppa nell’ultimo capitolo del suo ultimo libro, I sette peccati capitali dell’economia italiana.
Frasi che hanno attirato l’attenzione visto che domenica la possibilità di un governo Lega-M5s è stata stoppata da Sergio Mattarella a causa dell’indicazione come ministro dell’Economia dell’economista euroscettico Paolo Savona. La posizione dell’ex commissario alla spending review, però, è molto articolata e arriva alla conclusione che di uscire dall’Eurozona “non ne vale la pena” e anzi, come spiega fin dall’introduzione, “sarebbe un errore. Sarebbe come dire che è meglio giocare in serie B perché continuiamo a perdere in serie A. Comporterebbe altissimi costi di aggiustamento e finirebbe per emarginarci. Per restare in serie A e riprendere a vincere dobbiamo invece risolvere i problemi di lungo periodo”.
“Se lasciassimo l’euro e introducessimo la nuova lira, questa si svaluterebbe immediatamente rispetto all’euro”, è il primo caveat. “Ciò sarebbe inevitabile visto che la nuova lira verrebbe introdotta con il preciso scopo di poter svalutare. La svalutazione renderebbe più cari i prodotti importati, ma sarebbe un bene per gli esportatori“. Ma “tutto questo funzione se i salari non si muovono. Se i salari invece aumentassero per compensare il fatto che i beni importati (la benzina, il computer, le banane ecc.) ora costano di più, allora il produttore di moto non riuscirebbe a recuperare i margini di profitto. Data la debole congiuntura italiana, e l’elevata disoccupazione, i salari probabilmente non aumenterebbero in linea con la svalutazione e l’inflazione (…) Ma, se questo avvenisse, i salari sarebbero tagliati in termini reali, cioè in termini di potere d’acquisto. Conclusione: l’uscita dall’euro funziona nel restituire competitività ai prodotti italiani se è accompagnata da un taglio dei salari reali“.
In più “c’è anche un secondo problema. Supponiamo che siate indebitati in euro: vi siete comprati una casa e avete contratto un prestito ipotecario da una banca per 100.000 euro. Supponiamo che il vostro reddito sia di 50.000 euro l’anno. Il vostro debito è pari a due stipendi annui. Con l’introduzione della nuova lira il vostro stipendio viene convertito in 50.000 nuove lire (al cambio di una lira per un euro). Il giorno dopo la lira si svaluta e occorrono 1,25 lire per comprare un euro. Quanto pesa ora il vostro debito ipotecario? Per comprare 100.000 euro ora vi servono 125.000 nuove lire, quindi il debito non è più equivalente a due anni di stipendio, ma a due anni e mezzo (125.000:50.000=2,5). Ci avete perso. Naturalmente si potrebbe fare una legge che stabilisca di convertire il vostro debito che era in euro in nuove lire al cambio uno a uno (…) Ma questo crea problemi per la vostra banca creditrice che, magari, aveva finanziato il vostro credito prendendo a prestito dall’estero. Quindi occorrerebbe anche dire ai finanziatori esteri che saranno ripagati in nuove lire, il che non sarebbe ben accetto. Probabilmente farebbero causa alla banca italiana debitrice in un qualche tribunale estero o italiano”. E queste implicazioni “potrebbero mandare in bancarotta parecchie famiglie o imprese”.
Quanto al debito pubblico, potremmo finanziare quello in scadenza “stampando nuove lire”. La Banca d’Italia “potrebbe tornare a fare quello che faceva negli anni settanta, quando buona parte del debito veniva finanziato stampando moneta”. Solo che “se si stampa un po’ troppa moneta la gente perde fiducia nel valore stesso della stessa e cerca di liberarsene spendendola. Questo fa aumentare il livello dei prezzi”, con conseguente “ondata inflazionistica che imporrebbe ai detentori dei titoli di Stato una “tassa da inflazione”. Lo facevamo negli anni settanta, e non è che ci piacesse molto vivere con un’inflazione del 20-25 per cento”.
Alternativa all’uscita dall’euro potrebbe essere “l’introduzione di una moneta parallela che verrebbe usata dallo stato, e forse da altri, per le proprie transazioni all’interno del paese”. Ma “chi esporta in Italia non accetterebbe certo di essere pagato in nuove lire, richiederebbe euro o dollari. Una moneta parallela sarebbe equivalente all’uscita dall’euro. Anche su questo occorre essere chiari”. Infine, per uscire “dovremmo saldare il debito che l’Italia ha con la stessa Bce, derivante dallo squilibrio che si è creato nei pagamenti italiani negli ultimi anni per effetto di una crisi di fiducia nel nostro paese. Questo squilibrio al settembre 2017 ammontava a 433 miliardi”.
Conclusione: abbandonare l’euro “potrebbe forse consentire di risolvere i problemi di crescita, competitività e debito pubblico, ammesso che si riesca a ristabilire condizioni macroeconomiche ordinate dopo l’uscita dall’euro, ma questo avverrebbe al prezzo di un taglio dei salari reali, di una tassa da inflazione e solo dopo un periodo che sarebbe molto turbolento anche per via degli effetti di bilancio che accompagnano una svalutazione e dello sconvolgimento del sistema dei pagamenti. Non ne vale la pena”. E ancora: “Tutto sommato, credo che sia di gran lunga preferibile cercare di tornare alla crescita riformando l’economia italiana, piuttosto che scegliere il salto nel buio rappresentato da un’uscita dall’euro”.