Martedì scorso avevo scritto un post sul punto 2 del Contratto di governo, governo che non è mai nato. Era il buon proposito di mettere in pratica il risultato del referendum del 2011 sull’acqua pubblica. Anche altri punti di quel contratto erano interessanti, come l’accento sul riciclo e sulla difesa dell’ambiente e della salute, mentre non nascondo che altri – dalle bonifiche ambientali alle strategie di mitigazione dei rischi naturali – indicavano un modesto grado di approfondimento dei problemi reali. Senza contare che il contratto neppure sfiorava la crisi delle università, la cui trasformazione a livello globale secondo il modello aziendale sta mostrando enormi limiti, non solo culturali.

Comunque, quel contratto e quel governo si sono volatilizzati, perché “il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta” come diceva Paul Valery. Perché non è nato quel governo? Perché “ce lo chiede l’Europa“. Al di là delle interne discussioni istituzionali, questo è il messaggio che la gente percepisce, non solo in Italia. Ed è un messaggio un po’ abusato. Se c’è una generazione che fu affascinata fin dal principio dall’idea europea quella è la mia, ma ci riesce difficile intravedere nell’Europa di oggi quanto auspicava Altiero Spinelli. Anzi, questo messaggio – vero o falso che sia ma riproposto tal quale alla gente in modo ossessivo – non fa che alimentare la già folta schiera di chi non vuole più avere nulla a che fare con l’Europa, perché percepisce una sintonia sempre più debole tra sogno unitario e democrazia.

Che cosa rimane del sogno europeo? La Gran Bretagna, la più antica democrazia europea, si è sfilata all’inglese. E questo non è un segnale positivo per la salute della democrazia. La Francia ha eletto un presidente inizialmente prescelto da una minoranza esigua rispetto ai potenziali elettori, il quale fronteggia una sorta di ribellione diffusa contro le sue “moderne” riforme. E si dedica in questi giorni a finalizzare l’influenza francese sulle rovine della Libia, ricche di petrolio, con scarso riguardo allo storico ruolo dell’Italia: non è un segnale di grande condivisione europeista, così come non lo sono i gendarmi schierati alla nostra frontiera contro i migranti.

La Spagna vive una profonda spaccatura sulla questione “interna” della Catalogna, che a sua volta accusa il governo centrale di non rispettare la democrazia. La Germania, guidata da una coalizione d’interesse nata per contrastare fantasmi poco entusiasmanti, coltiva in modo esclusivo ed egoista l’interesse economico e finanziario, proprio e dei suoi satelliti. Eppure avrebbe bisogno di una Europa unita e solidale per fronteggiare la sfida economica degli Stati Uniti, che chiedono scambi economici meno sbilanciati: la Cina ha un surplus commerciale modesto rispetto a quello tedesco; e le minacce di Donald Trump di limitare l’import di automobili non sono grida manzoniane. Ma pubblicando vignette dove l’Ape italiana si schianta nel vuoto, la Germania non favorisce certo la solidarietà. E poi c’è la Grecia, un Paese messo alla gogna – quasi fossimo nel Medioevo – al motto maoista “colpirne uno per educarne cento”.

La Grecia è prostrata, come un mese fa mi confidava un docente greco, mio coetaneo. Raccontava di un salario più che dimezzato, con servizi sociali e sanitari che sono solo un ricordo: “Neppure quando i tedeschi c’imposero come re Ottone di Baviera, garante della restituzione del debito, stavamo così male”. Secondo lo storico Thomas Gallant, Ottone di Grecia non fu “abbastanza spietato da essere temuto, né abbastanza compassionevole da essere amato, né abbastanza capace da essere rispettato”. E chi comanda oggi in Europa assomiglia un po’ a Ottone di Baviera, che fu ahimè ridotto all’impotenza da un altro default, alla radice della rivoluzione del 1843 che dà il nome a piazza Syntagma, la piazza della Costituzione.

In questi giorni si è discusso a lungo del debito sovrano. Nel Novecento, la Germania è incorsa per tre volte nell’insolvenza (nel 1932, 1939 e 1948) senza mai pagare il proprio debito. Nel 1933 andò al potere Adolf Hitler, che non aveva tra le priorità la volontà di onorare il debito. Nel 1939 non poté onorarlo per forza maggiore (l’entrata in guerra) e nel 1953 le fu in gran parte condonato dagli alleati nel quadro strategico della Guerra fredda. Se l’unica strada per ritrovare la fiducia nel presente e costruire una visione di futuro è allentare la garrota del debito, all’Italia non rimane che seguire l’esempio della Repubblica di Genova, quando, nel giugno del 1768, stipulò a tal fine il Trattato di Versailles. Un’opzione da prendere in seria considerazione.

Ieri ho riletto un vecchio articolo di uno storico americano, Carl Strikwerda, pubblicato nel 1993. Prendendo spunto da due circostanze di allora – la scomparsa della cortina di ferro (1989) e la politica di totale integrazione economica europea intrapresa nel 1992 – l’autore narra le burrascose origini della integrazione economica europea tentata nell’epoca precedente la Prima guerra mondiale. Illustrando le ragioni del fallimento di quei tentativi, egli afferma che “l’integrazione europea può avere successo solo quando coalizioni molto ampie di agricoltori, impresari, lavoratori, commercianti e governanti siano coinvolti nel sostenerla. Nonostante si pensi il contrario, l’integrazione non è mai inevitabile. Senza coalizioni politiche capaci di distribuire i benefici dell’integrazione e alleviarne gli svantaggi, l’internazionalismo non può avere successo, indipendentemente dalla logica economica che lo spinge”.

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