Nel suo nuovo libro, l'ex priore di Bose spiega questa nuova stagione della sua esistenza, in cui vuole aggiungere “vita ai giorni e non giorni alla vita”. E racconta di avere fatto testamento biologico: "Scelta essenziale per ogni uomo che vuol essere responsabile di sé ma anche di quelli che lascia"
Gli occhi azzurri e le rughe sul volto raccontano la vita di un uomo che ha scelto di “vivere nel mondo, ma di non essere del mondo”. Per incontrare Enzo Bianchi, che nel 2017 “ha lasciato la presa” dimettendosi da priore della comunità monastica che ha fondato, bisogna arrivare ai piedi delle Alpi nella frazione di Bose tra Ivrea e Biella, in uno scenario che dà voce al “grande” silenzio e parola alla natura. Ed è uno dei pochi luoghi, forse l’unico, dove sono presenti monaci e monache di altre confessioni.
Enzo, come lo chiamano i suoi fratelli e le sue sorelle ma anche gli amici più intimi, è rimasto lì, fedele al Vangelo e alla sua comunità. Di tanto in tanto è possibile incrociarlo a piedi per le strade di qualche città dove ha tenuto una conferenza; in un aeroporto pronto a raggiungere un nuovo impegno o sulla spiaggia della costa orientale della Sardegna dove ama “ritirarsi” in una “discreta solitudine” per restare ore davanti al mare. Ha scelto di vivere così questa nuova stagione della sua esistenza , “aggiungendo vita ai giorni e non giorni alla vita” e lo ha voluto fare con un libro, La vita e i giorni. Sulla vecchiaia (Edizioni “il Mulino”): 138 pagine che svelano, senza alcuna reticenza, l’intimità di questo tempo “nuovo”.
Ma il suo non è un libro rivolto solo ai lettori anziani. “È un testo – spiega a ilfattoquotidiano.it – nato in dialogo con giovani e bambini. Spesso mi fanno domande, cerco di ricordare quando avevo la loro età, tutta la forza e la speranza che conservavo allora. Ora non penso ai vecchi e alla mia vecchiaia ma a tutti quelli che incontriamo su questo pianeta e a quello che possiamo dirci da giovani e da vecchi che siamo”. Parole che evocano quelle scritte nel libro quando ricorda che “tenere i bambini lontano dai vecchi significa non trasmettere il senso e l’esperienza della vita a chi dovrà affrontarla”.
D’altro canto si tende sempre a rimuovere la vecchiaia e la morte. E alle paure è dedicato un capitolo del libro: “Siamo in una società – scrive Enzo Bianchi – in cui domina il narcisismo culturale che impedisce di guardare se stessi nella propria dinamica che nella vecchiaia diventa debolezza. Le vecchiaie sono molte ma tutte portano il segno di qualcosa che viene a mancare. Questo fa paura all’orizzonte narcisista. C’è la volontà di apparire sempre efficace, sempre sulla breccia: il protagonismo della vita è una vera e propria ossessione. La vecchiaia porta a fare qualche passo indietro, a lasciare la presa e tutto questo ci spaventa. La si rimuove ma non ci si prepara a viverla come una stagione che non è l’anticamera della morte ma un altro modo di vivere la vita”.
Bianchi ci ricorda che “nell’anzianità giunge il tempo di avere tempo”. Un inno alla bellezza perché si può leggere, scrivere, ascoltare, vedere: “Proprio perché vengono a mancare i mandati, i compiti che la vita ci ha donato o che ci siamo assegnati, nell’anzianità abbiamo tempo di vedere la bellezza di un fiore che da giovane non riuscivamo a scorgere; di andare nel bosco e scoprire dei sassi che prima non vedevamo perché c’era altro da fare. C’è la possibilità delle relazioni, degli amici, del bere insieme un Barolo chinato o un brandy spagnolo, di parlare, di passare del tempo in gratuità senza la fretta di qualcosa da fare dopo”. E il monaco spiega di vivere “questo tempo in pienezza perché posso stare delle ore a guardare il mare senza avere l’ansia di dire ‘ho un compito da svolgere oggi’”.
E poi non bisogna dimenticare che alla vecchiaia spetta svelare e portare a compimento il proprio carattere. Un “mestiere” che ha toccato anche il fondatore di Bose che confida: “Ho scoperto che nel mio carattere c’era molta ansietà. Non sono stato un uomo angosciato ma con un’ansia, a volte dagli aspetti ossessivi, che diventava paura. Ora riesco a frenarla, a guardarla in faccia, a stemperarla riempendola di altre cose: è stata una modifica del carattere di cui anche gli altri si sono accorti. Queste modifiche si vedono nel sorriso dei vecchi quando sono distesi, sorridenti: le loro rughe non incattiviscono il volto ma danno il senso del vissuto. Nella vecchiaia ognuno ha la faccia che si è costruito e si merita”. Bianchi sorride alla vita ma non nasconde le lacrime, e svela che la sua cella (luogo inviolabile anche per i suoi fratelli) è spesso il luogo del pianto, “dove si vorrebbe danzare con chi si ama, si vorrebbe vedere il volto di colui che tanto si cerca”. E ricorda che nella vita “è importante piangere nella vita e mantenere la capacità di farlo”.
La vecchiaia introduce anche il pensiero per la morte, e Bianchi non nasconde di avere paura. Vuole arrivarci preparato come quei personaggi che Paul Morand racconta nel suo L’arte di morire. E ha fatto il testamento biologico: “E’ una scelta essenziale per ogni uomo che vuol essere responsabile di sé ma anche di quelli che lascia. Dire che non si vuole l’accanimento terapeutico ma la morte naturale quando non c’è più alcuna speranza, libera molto quelli che restano e mostra che noi accettiamo il momento della morte. Abbiamo un limite che va rispettato e ci deve star davanti: ci sono intere Chiese come quelle di Germania, di Francia o del Belgio dove i vescovi hanno chiesto ai cristiani di fare il testamento biologico”.
E quando all’uomo, allo scrittore, al monaco Enzo Bianchi si ricorda che oggi pochi, soprattutto in politica, sono capaci come lui di mollare la presa risponde: “Per esperienza ho visto che quelli che vogliono tenere fino alla fine il compito che hanno e non vogliono lasciarlo impediscono ai più giovani di avanzare. Ma soprattutto rischiano di fare il male“.