“Avviso per la presentazione di candidatura a componente del consiglio di amministrazione della Rai – Radiotelevisione Italiana Spa”, si legge sui siti web di Camera e Senato.  L’annuncio, pubblicato lo scorso 30 aprile, è rivolto a chiunque rispetti i requisiti e voglia candidarsi a far parte del Cda della televisione pubblica. L’ultima parola per la nomina spetta però ai parlamentari, che devono votare due consiglieri per ciascun ramo del Parlamento fra chi ha seguito correttamente la procedura indicata online. Scadenza prevista per il 31 maggio 2018 (fra 30 giorni finirà il mandato dell’attuale dirigenza).

“Fuori i partiti dalla Rai“, prometteva l’allora premier Matteo Renzi nel marzo 2015. Poi, alla fine dello stesso anno, il via libera definitivo alla riforma della tv di Stato. Ma anziché sbattere fuori la politica da viale Mazzini, la consueta “spartizione” delle nomine fu messa nero su bianco. Parola d’ordine, “trasparenza“: chi vuole entrare a far parte del Cda Rai – si legge nel testo della riforma – deve presentare la propria candidatura secondo una procedura pubblica, il cui “bando” viene pubblicato online.

E così effettivamente è stato. Sui siti di Camera e Senato campeggiano tutte le indicazioni da rispettare per poter concorrere alla nomina: fare domanda “esclusivamente tramite posta elettronica certificata“; allegare un curriculum vitae in cui viene specificato il possesso di tutti i requisiti e documentazione che attesti di poter essere eleggibili; allegare copia di un documento d’identità valido; accettare che il cv verrà pubblicato online senza alcuna autorizzazione. Tutte indicazioni, insomma, tipiche di qualunque altro bando pubblico.

Peccato che, nonostante il mantra della “trasparenza”, a decidere le nomine sia sempre e comunque la politica. Secondo la legge Renzi, infatti, alla Camera e al Senato – quindi ai partiti – spetta la designazione di 4 componenti del Cda. Due vengono scelti dal Governo su proposta del ministro dell’Economia. L’ultimo è nominato dall’assemblea dei dipendenti Rai tra i titolari di un rapporto di lavoro subordinato da almeno 3 anni consecutivi.

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