Michelangelo quando scolpì il Mosè o dipinse la Cappella Sistina non lo fece perché “c’ho un progetto”, ma perché il Papa glielo chiese (Chiesa/chiese) in qualità di committente. L’arte è stata per secoli una questione di committenze e se non era per la Chiesa era per sovrani, nobili e alto borghesi. Potere e denaro. Anche i massimi maestri, per i quali noi oggi affolliamo i musei o facciamo code nelle mostre temporanee, erano artisti al servizio di qualcuno.
Quel concetto di “creatività artistica” sembra molto distante, da questo punto di vista, rispetto a un oggi in cui la consideriamo (da poveri illusi) libera e anarcoide. Distante la è, ma forse ancora meno libera di allora, giacché le regole di mercato (e che mercato, quello dell’arte!) sono oggi ferree nel rispondere alla regola del profitto. I nuovi regnanti sono galleristi, collezionisti, critici o committenti commerciali.
Detto questo (torniamo così sul nostro terreno della fotografia), è interessante osservare l’operazione In piena luce. Nove fotografi interpretano i Musei Vaticani titolo di una mostra appena inaugurata nelle sale di Palazzo Reale a Milano (visibile fino al 1° luglio 2018 con ingresso gratuito) che rappresenta un momento, allo stesso tempo, di novità e di continuità. La continuità è proprio quella a cui abbiamo accennato, ovvero il ruolo storico della Chiesa come grande committente di opere d’arte.
La simbiosi tra la Chiesa e le immagini è da sempre funzionale a creare un immaginario che segna tutti noi, volenti o nolenti: ora si passa dalle tele e dagli affreschi alle fotografie.
La novità è che, per la prima volta, i Musei Vaticani decidono d’iniziare a collezionare fotografia e lo fanno commissionando (appunto) a nove grandi fotografi internazionali uno sguardo personale sui Musei Vaticani stessi. La Chiesa è committente e soggetto, esattamente come accadeva un tempo, ma lo fa con il linguaggio della contemporaneità. Naturalmente il risultato è lasciato allo stile e alla visione dei singoli autori, che si sono concentrati di volta in volta sulle opere esposte nei Musei Vaticani, sui visitatori, sulle architetture, sugli esterni, sugli interni e così via.
Insomma, si può dare una doppia e opposta lettura alla spinta verso una simile iniziativa: apertura ai nuovi linguaggi, doveroso ruolo mecenatistico nel finanziare e dunque essere motore della produzione artistica; oppure, di contro, usare la committenza per autocelebrarsi, come in fondo è sempre avvenuto.
Non sono e non voglio essere un critico, perciò non entro nel merito dei risultati ma osservo che, se coraggiosa voleva essere l’operazione, poteva esserlo fino in fondo convocando non solo nomi noti e affermati del panorama fotografico, ma anche qualche outsider di grande talento (ce ne sono in quantità e faticano a trovare interlocutori). Non possiamo non riscontrare che alcuni dei big hanno semplicemente applicato la loro “maniera” al tema assegnato, riproducendo ancora una volta se stessi e vendendo più che altro un marchio di fabbrica (autori che amo, però uffa! Che modo ripetitivo di essere un Martin Parr o un Mimmo Jodice).
Se parliamo di coraggio, di fotografia e di Chiesa allora preferisco ricordare un’altra incursione del Vaticano nel territorio delle “immagini fatte a macchina”, che in verità ha preceduto di qualche anno In piena luce: nel 2013 Città del Vaticano fu presente, per la prima volta, con un suo padiglione all’Esposizione Internazionale d’Arte Biennale di Venezia; a curarne i contenuti artistici monsignor Gianfranco Ravasi, il quale vi portò nientemeno che Josef Koudelka con un progetto espositivo strabiliante appositamente realizzato e dal titolo (già questo coraggioso) De-creazione.
In ogni caso, che la Chiesa si sia accorta di come la fotografia può essere un canale privilegiato per entrare in comunicazione con un certo tipo di target (e non uso a caso la terminologia del marketing) lo si era riscontrato anche in un recente discorso, molto intenso, rivolto da Papa Francesco ai giovani raccolti in uno stadio ad ascoltarlo, in cui il Sommo Pontefice citava inaspettatamente termini tecnici come photoshoppare, alta definizione, ritocco digitale, filtri colorati, eccetera.
Abbiamo iniziato parlando di Michelangelo; tra gli autori della mostra In piena luce a Bill Armstrong, il più fortunato o il più sfortunato secondo i punti di vista, è toccato l’arduo compito di porre il suo sguardo fotografico sulla Cappella Sistina. Una cosetta così. Unica via d’uscita, quella di partire per la tangente e allontanarsi quanto più possibile da qualsiasi cosa potesse apparire prevedibile, scontata, classica, rispettosa, timida, timorosa e timorata. Ecco, questa serie di foto è forse quella che più di altre ha colpito ma anche quella meno a immagine e somiglianza del committente.
Auguriamo dunque a chi amministra le cose della Fede (per il suo bene) molta fotografia “infedele”, perfino con qualche ombra accanto alla “piena luce”.