Drastico calo anche dei ginecologi. E così i punti nascita sono sempre più a rischio chiusura
È ormai caccia ai medici in corsia. Dopo anni in cui gli ospedali di tutto il Paese, pubblici e convenzionati, lavorano sotto organico. E in prospettiva della prossima emorragia di camici bianchi che aggraverà le carenze nei reparti. Nel 2028, secondo una stima del sindacato dei medici dirigenti Anaao, per effetto dei pensionamenti spariranno infatti oltre 47mila specialisti. E già adesso i nuovi ingressi non bastano a colmare i vuoti lasciati. Solo quest’anno, per dire, se ne andranno altri 2.459 futuri medici: considerato che l’offerta è stata di 6.200 borse di studio, mentre il fabbisogno nazionale calcolato dalle Regioni per garantire il funzionamento del sistema sanitario è di 8.569 nuove unità.
Antonio Saitta, coordinatore della commissione Salute della Conferenza delle Regioni, sottolinea che i posti in specialità “sono distribuiti in modo disomogeneo sul territorio rispetto alle necessità delle Regioni” e chiede che Miur e ministero della Salute trovino al più presto una quadra per adeguare l’offerta formativa. Ogni ritardo sarà fatale infatti. “La mancanza di specialisti – denuncia Saitta – sta determinando in molti ospedali italiani seri problemi di funzionamento, soprattutto nei territori marginali e poco urbanizzati. C’è il rischio reale di chiudere servizi”. Il Miur fa sapere che uno sforzo in questi anni è già stato fatto, portando i contratti di formazione medica specialistica dai 5mila del 2014 ai 6mila del 2015 e 6.200 del 2017, e di più ora non si riesce fare. Ai primi di marzo il ministero della Salute aveva annunciato un tavolo di lavoro con la Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo) per sanare la carenza dei medici in corsia. “Lo stiamo ancora aspettando nonostante i nostri continui solleciti”, dichiara il presidente Filippo Anelli. La crisi politica non ha certo aiutato ad accorciare i tempi.
Tra le categorie di medici sempre più introvabili ci sono soprattutto anestesisti e ginecologi. Dei primi ne mancano circa 4mila su tutto il territorio nazionale. All’ospedale Maggiore di Parma è successo che dei pazienti a digiuno da ore, pronti per andare sotto i ferri, fossero rispediti nelle loro stanze in mancanza di anestesisti. “È bastata l’assenza improvvisa di un collega per mandare in tilt l’attività chirurgica – spiega il direttore del reparto di Anestesia e rianimazione Maurizio Leccabue, che è anche consigliere regionale di Aaroi-Emac, il sindacato degli anestesisti rianimatori italiani-. Nella mia équipe mancano dieci unità, per coprire tutti i turni saltiamo le ferie e gli straordinari sono programmati. Gli ospedali si contendono i neospecializzati come si fa coi calciatori di serie A”. A risentirne ovviamente sono pure i pazienti. “Le liste di attesa per gli interventi meno urgenti si sono allungate di due mesi”, spiega Leccabue. In Veneto, dove la crisi dura da anni, si sono adottate scappatoie poco felici. “Capita che, anche e soprattutto nelle regioni considerate virtuose come il Veneto, se il reparto è sotto organico, gli specializzandi siano diventati essenziali per far fronte alla carenza di medici specialisti”, ci riferisce il presidente nazionale del sindacato, Alessandro Vergallo.
Ma la cosa più grave è che la scarsità di personale, in alcune realtà di provincia, “sta mettendo in moto dei meccanismi pericolosi, assolutamente non contemplati dal contratto di lavoro”. La denuncia arriva da Marcello Difonzo, dottore dell’ospedale Di Venere di Bari e delegato provinciale Aaroi-Emac. “Ci hanno chiesto di fare delle reperibilità sostitutive notturne in un altro ospedale, quello di Triggiano, che dista 15 chilometri da qui. Significa che se c’è un’urgenza il medico deve partire da casa e raggiungere l’ospedale ma nel frattempo il paziente potrebbe essere morto. La reperibilità nel nostro caso non può sostituire completamente la presenza fisica dell’anestesista in ospedale. Ed è logico, visto che abbiamo a che fare con malattie tempo-dipendenti”. E non è l’unico esempio, purtroppo. “Gli anestesisti di Molfetta mi hanno scritto una lettera per denunciare che sono appena in quattro e per riuscire a coprire i turni di notte ogni volta mettono due colleghi in reperibilità sostitutiva, una condizione che, appunto, viola il contratto di lavoro e mette in serio pericolo la vita dei pazienti”. Anche al Nord stessa storia. La dottoressa Cristina Mascheroni, presidente di Aaroi-Emac Lombardia, fa un elenco. “Negli ospedali di Tradate, Stradella, Codogno e Merate di notte anziché esserci due anestesisti, uno per il pronto soccorso, l’altro per la rianimazione, ne è presente solo uno. L’altro è in reperibilità sostitutiva. E alcuni devono dormire in hotel, vicino all’ospedale, perché abitano troppo lontano”.
In un’Italia che non fa figli non si trovano neanche più neanche i ginecologi. Vanno deserti i bandi nelle regioni del Nord, perché non ci sono abbastanza specializzati. Non se ne assumono più nelle regioni del Sud, perché strette nella morsa del piano di rientro dai deficit del passato. Elsa Viora, a capo dell’Associazione ostetrici e ginecologi ospedalieri italiani (Aogoi), ha fatto i conti: “Entro i prossimi dieci anni andranno in pensione 5mila ginecologi e solo la metà verranno sostituiti”. E così rischiano di chiudere perfino i punti nascita con più di 500 parti l’anno (il numero minimo per garantire gli standard operativi di sicurezza). Come quello di Melzo (Mi) dove entro la fine del 2018 cinque ginecologi andranno in pensione e l’equipe verrà dimezzata. O quello di Saronno (Mi), dove mancano due medici e i turni sono già insostenibili. Quello di Codogno (Lo), con 536 parti l’anno, in aprile lo hanno dovuto smantellare. A Casalmaggiore (Cr), anche se nel 2017 i parti sono stati 382, il punto nascita è di vitale importanza. Mancano tre ginecologi, dopo diversi bandi falliti, il prossimo concorso sarà a giugno. C’è da sperare che i vincitori accettino il posto. Diversamente, il servizio potrebbe cessare e sarebbe un bel guaio. Visto che il ponte sul Po che collega il paese a Parma, la città più vicina, è chiuso e il primo punto nascita si troverebbe a 30 chilometri di distanza. Un’impresa forse troppo rischiosa per le partorienti.