Centinaia di migliaia di giordani sono scesi in strada durante lo scorso fine settimana per protestare contro le riforme economiche del governo guidato dal premier Hani al Mulki chiedendone la cacciata. Sono state bloccate le strade principali, bruciati i copertoni e ci sono stati tafferugli con le forze di sicurezza nellae più grandi manifestazioni nel regno hashemita da anni. E alla fine, la mossa era nell’aria da domenica sera, il re giordano Abdullah II ha ceduto alla piazza e ha chiesto a Omar al-Razzaz di formare un nuovo governo dopo aver ricevuto le dimissioni di Hani Mulki. Una mossa destinata a disinnescare le grandi proteste – Razzaz, ex economista della Banca mondiale, era ministro dell’educazione nel governo uscente – ma potrebbe non essere sufficiente.
Le proteste sono iniziate giovedì sera dopo l’Ifthar, la rottura del digiuno del Ramadan. In decine di migliaia sono scesi in strada in tutto il regno: nelle province di Irbid e Jarash, ad Amman, Aqaba, Salt, Al-Karak e nella zona del Rift Giordano, chiedendo di annullare l’aumento delle tasse sugli alimentari e altri generi di prima necessità. Venerdì, il re Abdullah II ha capito che per il suo regno erano cominciati giorni difficili e aveva annullato un viaggio programmato da tempo, ordinando intanto di ritardare le decisioni sull’aumento della benzina. L’annuncio del nuovo premier venuto dal Palazzo Reale non sembra al momento aver convinto la piazza. Resta confermato per mercoledì uno sciopero generale indetto da 33 organizzazioni di lavoratori.
È difficile ricordare l’ultima volta che manifestazioni e scioperi così diffusi hanno avuto luogo in Giordania. Re Abdullah – rispettato ma mai amato come suo padre Hussein – sta affrontando uno dei momenti più critici del suo regno. L’imposizione di una tassa di vendita su 165 articoli, compresi i prodotti alimentari di base, l’aumento del prezzo di carburante, elettricità e acqua, un picco del 20% nella tassa sul tabacco e l’aumento del 9% del prezzo del trasporto pubblico, erano misure destinate a soddisfare le richieste del Fondo Monetario Internazionale che ha concesso alla Giordania un prestito e di ridurre l’entità del debito pubblico, che ora ammonta a oltre 40 miliardi di dollari. Questo chiedeva la Banca Mondiale e questo, come sostiene Moody’s è “fondamentale per il miglioramento del rating della Giordania” al momento fermo a B1 (stabile).
La gente della strada trova difficile accettare le spiegazioni economiche vista della profonda corruzione burocratica e gli enormi divari tra le élite vicine alla corte reale e coloro che hanno bisogno di lavorare in due o tre posti (ammesso riesca a trovarli) per arrivare a fine mese. A questo va aggiunto il fatto che nel regno hashemita sono stati accolti 1,2 milioni di rifugiati siriani – il 20% della popolazione – che si sono aggiunti a quelli iracheni, che si erano aggiunti a quelli palestinesi arrivati nel 1948 e 1967. Metà della gente nelle strade giordane è “un rifugiato”.
Le proteste sono poi cresciute quando si è scoperto che i rincari erano solo il primo passo di una serie di misure draconiane, come la tassa sul reddito, concepita dal primo ministro Hani al-Mulki e ora in attesa di approvazione da parte del Parlamento. Il nuovo disegno di legge stabiliva inoltre che le violazioni fiscali diventavano reati penali piuttosto che amministrativi.
La ristretta classe media giordana – anche con il nuovo primo ministro Razzaz – dovrà comunque fare i conti con un pacchetto di misure che includerà una tassa sul reddito, un’imposta societaria più alta e gli aumenti delle tariffe fissate nel budget. Non si può valutare se e quando il sottile filo che lega il potere al popolo sarà rotto. Abdullah deve scegliere tra riforme dolorose che evocano disordini sociali e il licenziamento di un governo. Quest’ultima è in genere la sua opzione preferita, ne ha “consumati” 18 in 19 anni di regno.
Non è inverosimile pensare che i ricchi Stati arabi e l’amministrazione Usa verranno in soccorso e sosterranno finanziariamente Amman. La Giordania è un paese strategicamente importante nella cerchia degli Stati arabi filo-occidentali, un importante mattone nel muro fortificato contro l’Iran. E quando nelle manifestazioni si sentono grida contro il regime e non solo contro il premier, con le richieste di cacciata del re, c’è subito il timore che la crisi possa prendere una svolta politica inaspettata e pericolosa.