Zonaeuro

Migranti, ricollocamenti non obbligatori e aumento responsabilità per il 1° ingresso: perché Italia dice no a riforma di Dublino

Domani a Lussemburgo il consiglio dei ministri dell'Interno che discuterà la proposta presentata a fine marzo dalla Bulgaria. Roma giudica insoddisfacente l'equilibrio individuato tra solidarietà e responsabilità nella gestione dei flussi migratori. Germania e Commissione Ue insistono sulla necessità di trovare una soluzione entro fine giugno, quando scadrà il mandato della presidenza di Sofia e subentrerà quella austriaca, molto più intransigente sulla questione

La proposta presentata a fine marzo dalla Bulgaria presidente di turno dell’Ue non piace all’Italia, né ai Paesi del sud. Il capo del Viminale Matteo Salvini non ci sarà ma ha già annunciato che martedì, al consiglio dei ministri dell’Interno dell’Unione Europea in programma a Lussemburgo, l’Italia voterà contro la bozza di riforma del regolamento di Dublino presentata da Sofia. L’Italia giudica insoddisfacente l’equilibrio individuato nel documento tra solidarietà e responsabilità nella gestione dei flussi migratori. Germania e Commissione Ue, da parte loro, insistono sulla necessità di trovare una soluzione entro fine giugno, quando scadrà il mandato della presidenza bulgara, e subentrerà quella austriaca, molto più intransigente sulla questione. video di Manolo Lanaro

La bozza di riforma che martedì sarà sul tavolo dei ministri sul tavolo non prevede alcun automatismo nel ricollocamento dei richiedenti asilo, ma contempla scappatoie ‘finanziarie’ e sancisce l’obbligatorietà delle riallocazioni solo in modo graduale e sfumato. Qualche esempio: il testo di revisione prevede la possibilità che la Commissione europea proponga al Consiglio di attivare il meccanismo di solidarietà quando il Paese sia arrivato al 160% della sua “giusta quota” di richiedenti (che viene calcolata in base al suo Pil e alla sua popolazione), allora quella proposta della Commissione viene considerata adottata, a meno che in Consiglio non ci sia una maggioranza qualificata contraria.

Le allocazioni continuano fino al momento in cui lo Stato membro non torna sotto il 100%; la decisione rimane in vigore per un periodo di tre mesi dopo questo momento. Il numero massimo di persone che possono essere allocate in uno Stato membro per un periodo di due anni non può superare lo 0,05% della popolazione dell’Ue all’epoca della decisione del Consiglio (escludendo dal computo la Gran Bretagna, si tratta di 223mila persone circa).

In ogni caso, lo Stato si prende almeno il 50% dei riallocati che le vengono assegnati. Per il resto, però, può sostituire la metà dei richiedenti asilo riallocati con rifugiati reinsediati, cioè provenienti da Stati extra Ue (per esempio, rifugiati siriani in Libano). Oppure, può pagare: 25mila euro a persona se rimane sotto il 25% del totale dei riallocati, e 35mila euro a persona per ogni richiedente non allocato che ecceda quella percentuale. I relativi fondi vengono versati nel bilancio Ue e vengono usati nella gestione delle migrazioni, in particolare per aiutare gli Stati in difficoltà. Il meccanismo prevede anche un passaggio nel Consiglio Europeo, cioè dei capi di Stato e di governo, nel caso di una crisi particolarmente grave.

Il 24 maggio gli ambasciatori dei 28 (riuniti nel Coreper) sono tornati a confrontarsi sulla proposta, ma la discussione ha evidenziato ancora una volta posizioni distanti tra i Paesi del sud (Italia, Malta, Grecia, Spagna, Cipro) e quelli dell’Est (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia). L’unica vera variazione nel testo sulla bozza portata sul tavolo è stata quella che innalzava da cinque a otto anni la responsabilità stabile per il primo ingresso di un migrante, dopo che al Coreper della settimana precedente molti Paesi avevano giudicato inaccettabile l’abbassamento da dieci a cinque anni. Italia, Spagna, Grecia, Malta e Cipro la vorrebbero vedere la responsabilità fissata ad un massimo di due anni.

Secondo fonti diplomatiche a Lussemburgo, martedì saranno sono almeno una dozzina i Paesi pronti a chiudere la porta, per motivi diversi, alla proposta di riforma. Oltre ai due estremi opposti – i quattro Paesi Visegrad e il fronte mediterraneo guidato dall’Italia (dove tuttavia si registra una certa disponibilità a negoziare da parte di Grecia, Cipro e Malta e si è in attesa di capire cosa vorrà fare la Spagna del socialista Pedro Sanchez) – anche i tre Baltici si sono messi di traverso. Contraria alla proposta anche l’Austria e perplessità arrivano dall’Olanda, mentre è atteso un riposizionamento dalla Slovenia, dopo la vittoria elettorale del Partito democratico sloveno (Sds), anti-immigrazione. Pronti a lavorare sull’attuale bozza appaiono invece Germania e Francia, assieme ad un altro gruppo di Paesi, tra cui il Lussemburgo. Ma il sostegno di Parigi e Berlino potrebbe non essere sufficiente ad andare avanti nel solco tracciato negli ultimi due anni e mezzo.

La riforma sarà al centro dell’agenda dei leader al summit del 28 e 29 giugno. A Lussemburgo si fanno pronostici. Tre gli scenari che potrebbero emergere. Da un lato c’è chi, interpretando le parole della cancelliera Angela Merkel, vede una possibile soluzione attraverso una cooperazione rafforzata, da sviluppare attorno ad una coalizione di ‘Paesi volenterosi‘, che porterebbe, tra la sue conseguenze una ridefinizione dell’area Schengen, di cui Italia e Paesi mediterranei farebbero parte. Altri immaginano che la proposta bulgara possa essere imposta con un voto a maggioranza qualificata, anche se il portavoce della Commissione europea Margaritis Schinas ha fatto sapere di puntare a un “accordo unanime“. Altri ancora scommettono che nei prossimi mesi l’attenzione si sposterà su protezione delle frontiere esterne e rimpatri, col compito alla presidenza austriaca (al via a luglio) di rimettersi al lavoro sul dossier, ma con calma.