“Brescello che vogliamo” della candidata sindaca Elena Benassi si presenta alle elezioni in assoluta continuità con le precedenti amministrazioni e non parla di 'ndrangheta. Ne fanno parte anche due ex consiglieri di maggioranza che si opposero alle dimissioni di Marcello Coffrini. Alle urne anche altre 4 liste: ma la dispersione dei voti può favorire i nostalgici delle giunte del passato
Domenica prossima, 10 giugno, si vota a Brescello a poco più di due anni dallo scioglimento per mafia del consiglio comunale. Siamo nel paesino di Peppone e Don Camillo, un rettangolo di bassa pianura circondato dai fiumi Enza e Po con 5500 abitanti e una forte presenza di immigrati, in particolare da Pakistan e Romania, che rappresentano più del 10% della popolazione.
Cinque candidati con cinque liste diverse, ma nessun simbolo di partito, si contendono il ritorno alla guida del paese: la vittoria o la sconfitta si giocheranno su poche centinaia di voti. Si giocheranno su una sorta di referendum perenne che tiene banco da anni in paese: la mafia c’è a Brescello oppure no? La ‘ndrangheta ha fatto del paesino di Guareschi il “suo capoluogo” in provincia, come ha sostenuto qualche giorno fa nelle proprie conclusioni al processo Aemilia l’avvocato di parte civile Federico Fischer, oppure è solo un pretesto “per sacrificare Brescello e stornare l’attenzione da altre situazioni più importanti”, come detto nell’ultima sua intervista a marzo dall’ex sindaco Ermes Coffrini?
In sintonia con il primo cittadino più longevo del comune rivierasco (19 anni alla guida dell’ente) è certamente la candidata sindaca della lista “Brescello che vogliamo”, Elena Benassi. Nel suo programma politico la parola ‘ndrangheta non compare mai, mentre il giudizio si fa pesante quando si tratta di valutare i tre commissari prefettizi che guidano il comune dopo le dimissioni nel 2016 dell’altro Coffrini sindaco: Marcello, figlio di Ermes. Dice Elena Benassi: “Si è verificato in questo periodo (gli anni del commissariamento) un distacco che ha pesato sulla vita quotidiana di coloro che avevano sempre trovato nelle stanze del Comune persone disponibili all’ascolto e al dialogo”. La candidata dimentica che a trovare in Comune “persone sempre disponibili all’ascolto e al dialogo”, secondo la relazione inviata dalla Prefettura di Reggio Emilia al ministro dell’Interno il 20 gennaio 2016, c’erano proprio gli uomini della cosca Grande Aracri: “L’atteggiamento iniziale di probabile inconsapevolezza dell’ambiente politico locale si è tradotto col tempo in acquiescenza dalla quale si è poi sviluppata una situazione di vero e proprio assoggettamento al volere di alcuni affiliati alla cosca, nei cui confronti il Comune, anche quando avrebbe dovuto intervenire, è rimasto ingiustificatamente inerte”. E più avanti: “La consorteria ‘ndranghetista presente sul territorio ha trovato nel Comune non solo una continuità di indirizzo politico favorevole ma anche una struttura disponibile e non impermeabile al suo volere.”
Elena Benassi finisce anche direttamente sotto le osservazioni critiche dei tre commissari Formiglio, Oriolo e Di Matteo. Lei è stata Presidente della Fondazione “Paese di Don Camillo e Peppone”, di emanazione comunale, che il viceprefetto Antonio Oriolo ha profondamente cambiato dopo lo scioglimento del Comune, attraverso “misure e controlli per regolarizzare le consulenze esterne, gli affidi e gli incarichi, i pagamenti, la gestione del patrimonio e delle manutenzioni, in ottemperanza alle norme per l’anticorruzione”. Tutti aspetti, aggiunge sempre Oriolo, “in cui il Consiglio precedente risultava carente e sui quali era necessario intervenire con urgenza.”
A Brescello c’è dunque una lista che si presenta alle elezioni in assoluta continuità con le precedenti amministrazioni e che preferisce non parlare di ‘ndrangheta. Ne fanno parte due ex consiglieri di maggioranza che si opposero alle dimissioni di Marcello Coffrini e sui contenuti incassa il sostegno anche del parroco don Evandro che fa propria la tesi del complotto di Coffrini padre: “Brescello non è in scacco alla mafia e la mia impressione è che ci sia un disegno per far pagare a Brescello le colpe di tutti.”
A contendere il Comune a “Brescello che vogliamo” saranno altre quattro liste civiche e il rischio evidente è che la dispersione dei voti favorisca proprio i nostalgici delle giunte Coffrini. Il Pd si lecca ancora le ferite in provincia dopo la batosta rimediata nelle sue terre di insediamento storico alle politiche del 4 marzo scorso: a Brescello è arrivato terzo, dopo Centrodestra e 5 Stelle. Domenica sosterrà la candidata Maria Cristina Saccani e la lista “Brescello riparte” che in merito a legalità e trasparenza propone di rafforzare il sistema dei controlli con l’uso delle nuove tecnologie. Che tecnologie e in mano a chi ancora non è chiaro.
Poi ci sono la lista sempre civica “Brescello Onesta” che candida Carmela De Vito, sostenuta dalla Lega Nord con uno slogan piuttosto ermetico: “Non tutto va spiegato, molte cose vanno capite”, e la lista “Onestà Civile” guidata dall’ex consigliere comunale di opposizione Luciano Conforti. Un pensionato poeta col volto alla d’Artagnan che nel proprio programma ha scelto come la Benassi di non parlare mai di mafia.
Infine c’è la quinta lista civica, “L’Alternativa”, con Michele Salomoni candidato sindaco. È la lista che sui temi della penetrazione di stampo mafioso a Brescello ha detto in questi mesi cose interessanti, smascherando la falsa equazione “ammettere l’esistenza della mafia equivale ad accusare i brescellesi di essere mafiosi”.
Dice Salomoni in campagna elettorale rispondendo a don Evandro: “La comunità di Brescello non è l’amministrazione comunale. La nostra comunità non è stata sciolta per mafia, è stato il Comune amministrato fino a quel momento da sindaco e assessori di una maggioranza di centrosinistra legata al Partito Democratico ad essere sciolto. Compromessi erano ‘gli organi eletti’, non i cittadini. E non sono stati i Commissari ad umiliare Brescello, ma chi ha portato per negligenza politica o incapacità amministrativa il Comune ad essere il primo sciolto per mafia in Emilia Romagna. Vogliamo girare pagina, ma per farlo non si può chiedere di scrivere il corso della nuova Brescello proprio agli stessi, o al loro sodali, che hanno scritto quel libro nero”.
È un attacco che perderebbe di incisività se la ‘ndrangheta a Brescello non fosse mai esistita o non avesse mai piantato radici stabili. Ma per scartare questa ipotesi bastano poche parole dette in confidenza dal boss Nicolino Grande Aracri ad Angelo Salvatore Cortese, che il collaboratore di giustizia riferisce alla Direzione Antimafia il 30 novembre 2012: “Nicolino Grande Aracri me lo ha detto a me personalmente: io posso fare galera che su Brescello ho soldi che per vent’anni posso stare in galera. Ho investito tramite nipoti, tramite fratelli, tramite Alfonso Diletto ‘a scimmia’. Ho investito a livello grosso.”
Uno dei suoi fratelli residenti a Brescello è Francesco, il Grande Aracri al quale sono stati confiscati beni per tre milioni di euro e che l’ex sindaco Marcello Coffrini definì “persona educata e composta”. A parte quando minacciò con una spranga di legno il cameraman di Telereggio che riprendeva dalla strada la sua azienda Euro Grande Costruzioni srl, esclusa dalla white list.