Questo fine settimana al G7 Trump ha chiaramente fatto capire che l’incontro con gli storici alleati degli Stati Uniti non lo interessava, anzi era una sorta di scocciatura diplomatica. Irritato dal una frase di Justin Trudeau, ha fatto saltare l’accordo sul commercio e non ha firmato il comunicato congiunto, lasciando tutti di stucco.

Il presidente era troppo preso da un incontro ben più importante, quello con Kim Jong-un che si terrà il 12 giugno a Singapore. In effetti è un evento straordinario. Solo fino a pochi mesi fa Trump definiva il giovane Rocket Man per i test nucleari che conduceva a dispetto dei divieti della comunità internazionale. Intrigante non solo è l’interesse di Trump a sedersi davanti a Kim ma i motivi che hanno fatto cambiare idea al giovane dittatore.

Una chiave di lettura è la pacificazione della penisola coreana. Sia la Corea del Nord che quella del Sud trarrebbero grandi benefici dalla cooperazione economica che il processo di pace renderebbe possibile. L’obiettivo di entrambi è ricreare una partnership che a livello commerciale restituisca alla penisola i vantaggi dell’unità perduta. L’ostacolo principale sono le sanzioni economiche, una rete di divieti commerciali che gli Stati Uniti hanno introdotto per paralizzare l’economia nordcoreana.

In effetti, le sanzioni colpiscono le esportazioni dei tre più importanti prodotti nordcoreani – carbone, industria ittica ed abbigliamento – nonché le importazioni di una vasta gamma di beni necessari al Paese. Attualmente, la Cina, non la Corea del Sud, è il principale partner commerciale di Pyongyang. Ma Seoul ha un piano di lungo periodo in grado di porre fine al dominio cinese.

Il presidente Moon ha infatti discusso con Kim diversi progetti economici tra cui quello delle trecinture“. Una cintura di energia in grado di trasmettere elettricità dal sud al nord; una industriale, logistica e di trasporto, che comporterebbe la costruzione di una linea ferroviaria dal sud fino alla città portuale nordcoreana di Nampo ed a quella di Sinuiju, al confine con la Cina; e una cintura eco-turistica, che consentirebbe la ripresa delle visite al mnte Kumgang, nel nord, una breve corsa in autobus dalla zona demilitarizzata.

Tutte queste iniziative avrebbero molto successo perché l’economia nordcoreana è pronta per una liberalizzazione simile a quella promossa da Deng Xiaoping in Cina negli anni Ottanta e Novanta. Perché? Perché dalla fine degli anni 90, quando lo stato non poteva più garantire la sicurezza alimentare alla popolazione, la leadership nordcoreana ha incoraggiato la crescita di mercati informali, dove era possibile comprare e vendere prodotti agricoli per sopravvivere.

Nel corso degli anni, i prodotti “liberi” sono aumentati e un’economia di mercato parallela vi è fiorita attorno. Sebbene non legalizzati, sono tollerati e negli ultimi anni incoraggiati. In effetti le famiglie integrano gli scarsi salari statali con le entrate provenienti dall’economia informale. Così, ad esempio, le famiglie che fanno parte di cooperative agricole sono autorizzate a vendere privatamente tutto ciò che producono al di sopra della quota imposta dallo stato. Sono anche libere di disporre di tali redditi a loro piacimento, possono investire i soldi in nuove produzioni agricole o semplicemente intascarne i guadagni.

Ma non basta, da quando è salito al potere, Kim ha incoraggiato sia la commercializzazione che la dollarizzazione dell’economia per evitare gravi carenze e alta inflazione. Al won, la valuta nazionale, è stato permesso di agganciarsi al cambio del dollaro Usa nel mercato nero; in effetti, la stabilità dei tassi di cambio è diventato l’obiettivo non scritto della politica monetaria della Corea del Nord. Kim ha anche perseguito una politica di benevola negligenza che ha permesso al biglietto verde, all’euro e allo yuan cinese di circolare liberamente come monete del regime. Tutto ciò fa sì che per l’economia della Corea del Nord sia più facile seguire il percorso della liberalizzazione della Cina.

Gli industriali coreani, che sono stati tra i primi ad investire a Shenzhen e nelle zone economiche speciali create da Deng Xiaoping, sognano di replicare nella Corea del Nord i guadagni fenomenali ottenuti in Cina negli anni Ottanta e Novanta. Ma c’è dell’altro. Per la Corea del Sud, che sta affrontando sfide demografiche non indifferenti, il Nord apre l’accesso al grosso bacino di forza lavoro ben istruita.

La Corea del Nord non ha neppure bisogno di creare da zero la propria Shenzhen. Esiste già e si chiama Rason. Situata nell’estremo angolo nord-orientale del paese, Rason confina con la Russia ma è sull’altra sponda del fiume dove si trova il porto di Hunchun, in Cina. È dunque in una posizione molto strategica, proprio come lo era Shenzhen. Esiste un collegamento ferroviario attraverso il confine russo, un servizio di traghetti che in 12 ore raggiunge Vladivostock e un porto per container abbastanza profondo da funzionare tutto l’anno, anche in inverno. Rason potrebbe collegare la penisola coreana ai mercati ricchi del Giappone, degli Stati Uniti e del resto del mondo ma anche a quelli della cinesi.
Trump sa tutte queste cose? Chissà, forse a lui interessano solo le licenze per costruire quando non sarà più presidente campi da golf super esclusivi nella Corea del Nord – al momento ne esiste uno solo, fuori Pyongyang, che pare sia impeccabile e naturalmente semi deserto, un segreto custodito gelosamente dai diplomatici stranieri.

L’immagine in evidenza non ritrae i presidenti di Usa e Corea del Nord, ma i loro sosia.

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