Nella domenica elettorale sovrastata dal caso della nave Aquarius, c’è un solo evidente filo di continuità tra il turno amministrativo e le storiche elezioni politiche del 4 marzo. Ossia la crescente affermazione della Lega nazionalista di Matteo Salvini. Un dato accentuato ancora di più dalla non secondaria circostanza che giusto dieci giorni fa è stato varato il primo esecutivo populista della Repubblica.
Ecco, questo il punto centrale: se vogliamo ravvisare una tendenza nazionale in questo voto che ha riguardato 761 comuni (di cui 20 capoluogo di provincia) e 6 milioni e 700mila italiani, c’è da dire subito che l’onda non è stata gialloverde o gialloblu ma esclusivamente leghista. Meglio, salviniana. In tutto sono cinque le considerazioni che si possono svolgere in attesa del ballottaggio del 24 giugno:
1. Prima di esaminare il ruolo da dominus del capo del Carroccio, Salvini Dux come già lo chiama qualcuno, è necessario fare una premessa. Ancora una volta il primo “partito” si conferma quello dell’astensionismo. Quasi il 40 per cento degli aventi diritto ha preferito invece starsene a casa o andare al mare. Una cifra imponente soprattutto se raffrontata con l’atavica fedeltà dell’elettore al voto comunale. Insomma il tasso di sfiducia verso le istituzioni si espande ed è probabile che in quel quaranta per cento ci sia una grossa fetta di cittadini già delusi dal grillismo di governo, se non altro per la “qualità” dell’alleato scelto dal M5S per il fatidico contratto di governo.
2. Premesso tutto questo, si arriva alla percezione netta dell’avanzata leghista, che riesce a tenere in vita la coalizione di centrodestra. Sarebbe affrettato e poco razionale dire che questo governo non fa bene ai pentastellati, soprattutto dopo la domenica del blocco navale del ministro dell’Interno. Ma c’è un dato inequivocabile: la luna di miele del governo Conte, appena iniziata, avrebbe dovuto apportare qualche beneficio. Invece per l’ennesima volta c’è stata la conferma dell’abisso tra il voto nazionale del M5S e quello locale. E’ sufficiente spiegare tutto questo con l’alibi dello scarso radicamento, anche al netto del fenomeno sempre più diffuso delle liste civiche che penalizza tutte le forze, in particolare Pd e Forza Italia?
3. A proposito dello scarso radicamento. Sono ormai cinque anni che il M5S si è rivelato come una forza nazionale. Anche all’inizio, Forza Italia ebbe lo stesso percorso (voto a scatola chiusa alle Politiche e divario con le urne amministrative) a causa della leggerezza del partito di plastica. Ecco la questione centrale: la e-democracy visionaria di Casaleggio senior (e ridotta a gestione settaria dal figliolo che non vince neanche nel suo comune natìo, Ivrea) ha comunque bisogno – ora e qui – di una classe dirigente in carne e ossa perché il territorio è una frontiera invalicabile per i sogni e le ambizioni della realtà virtuale. La selezione dei candidati ancora una volta è il grande limite del Movimento e colpisce questo doppio binario tra il 4 marzo e il 10 giugno: poco più di tre mesi fa, il M5S ha fatto il pieno anche eleggendo candidati scomunicati o espulsi per varie ragioni; al contrario, a livello locale, la garanzia del logo non è il traino per emeriti sconosciuti.
4. Alla lunga la fragilità dei quadri, come si diceva un tempo, può essere un altro fattore di debolezza nella competizione interna nella maggioranza di governo. La Lega è in tutto e per tutto un partito tradizionale (“leninista” come volle la buonanima di Miglio, ideologo di Bossi) e l’abilità di Salvini è stata quella di garantire un ricambio di successo della classe dirigente. Con la retorica dei cittadini al potere, a cominciare da Conte, il Movimento guidato da Di Maio ha sinora ingurgitato di tutto: tecnici spacciati per società civile; professori come Tria in piena continuità con il predecessore Padoan (ah, il realismo di governo); finanche il nuovo cerchio magico dei fedelissimi scelti come ministri. Il vicepremier farebbe bene a considerare il voto di ieri come un campanello d’allarme (e senza dimenticare il voto dei due municipi romani contro la sindaca Raggi).
5. A fronte infine di un governo nuovo e sbilanciato a favore dell’azionista di minoranza, sia il Pd sia Forza Italia continuano la loro discesa verso il basso. Certo, come dice Gentiloni, il Pd non è morto ma il tonfo nelle regioni un tempo rosse evidenzia la costante erosione dei democratici. Tutto dipenderà dal ruolo del renzismo nei futuri assetti interni. Ché fin quando l’ex premier resterà il padre-padrone del partito ciò sarà una garanzia di vittoria per gli avversari. Chiarito questo, il Pd dovrà fare una scelta di campo primaria: se proseguire lo slittamento verso il centro oppure ripensarsi e tornare a sinistra, magari riscoprendo la presenza sul territorio. Diverso il destino funebre degli azzurri: qui è tutto legato al lento tramonto dell’ottuagenario ex Cavaliere. E colpisce che alla fine è stato proprio Salvini ad aprire due forni, con l’obiettivo di prosciugare gli alleati: da un lato Berlusconi, dall’altro Di Maio.