Una piccola California nascosta tra le campagne trapanesi. Piantagioni di marijuana “controllate con una guardiania armata, anche di notte”. Tutelate dai patti con Cosa nostra e destinate ad arrivare nella Palermo by night. In pratica un business milionario. Ed è per proteggerlo che la notte del 31 maggio 2016 è stato ucciso Silvio Mirarchi, un maresciallo dei carabinieri che stava perlustrando una piantagione di canapa afgana nelle campagne intorno a Marsala. Da allora i sequestri hanno ricostruito una mappa alternativa dell’intera provincia di Trapani.

Una “filiera agricola alternativa” – Un fenomeno in piena evoluzione quello della coltivazione su larga scala della marijuana in Sicilia. Nella zona più a ovest dell’isola, infatti, sono state estirpate e bruciate più di ventiseimila piante solo nel secondo semestre del 2016. Le indagini stanno ricostruendo quella che è diventata una vera e propria filiera agricola alternativa. Secondo uno degli investigatori, quando si scopre un campo coltivato a canapa “non si tratta mai di un contesto isolato. E non si può agire senza il consenso di Cosa nostra”. Che in Sicilia controlla tutti i traffici di droga a partire da quelli della cocaina.

“Serre meccanizzate e semi scelti”  – “Ci sono delle serre meccanizzate. Vengono comprati i semini dal canapaio a Palermo e così c’è la certezza che tutte le piante completino il ciclo. È una garanzia”. A raccontare le rotte della marijuana alla corte d’Assise di di Trapani, presieduta dal giudice Piero Grillo, è Sergio Macaluso ex capo del mandamento mafioso di Resuttana a Palermo. Dallo scorso gennaio, il boss pentito sta ricostruendo ai magistrati la mappa dei boss e i loro affari. Una fitta rete di fatti e nomi che incrocia la morte del maresciallo Silvio Mirarchi – a cui l’Arma ha recentemente intitolato una caserma – ucciso con un colpo alle spalle in contrada Ventreschi. Macaluso è stato ascoltato durante il processo in cui è imputato Nicolò Girgenti, vivaista di 47 anni ed ex proprietario del terreno perlustrato da Mirarchi la notte in cui venne ucciso. Arrestato dai carabinieri (con il contributo dei Cacciatori di Calabria) a un mese dall’omicidio, secondo l’accusa Girgenti stava tentando di rubare delle piante e alla vista di Mirarchi e del collega Antonello Cammarata (rimasto ferito) avrebbe sparato. L’uomo si è sempre dichiarato innocente e nell’ultima udienza del processo – in cui la moglie del militare assassinato è parte civile – il giudice ha ordinato una nuova perizia per ricostruire le tracce gps lasciate quella notte dal suo telefono cellulare.

“Piante nascoste vicino a limoni e aranci” – “Dal 2006 al 2010 le piantagioni si trovavano a Partinico, poi abbiamo visto che i carabinieri con gli elicotteri le scoprivano nonostante le mettessimo vicino agli alberi di limoni e arance. Attorno al 2013 vennero coltivate indoor (all’interno con illuminazione artificiale ndr) ma più di 100/200 piante non si possono fare e quindi si cercavano altre soluzioni”, ha raccontato il pentito Macaluso, collegato in video conferenza da un sito protetto. A gestire l’affare e le sue evoluzioni sarebbero stati Francesco Lojacono (nipote di Macaluso) e il suocero Francesco D’Arrigo, entrambi finiti sotto processo assieme a Girgenti e Fabrizio Messina Denaro (nessuna parentela Matteo, l’ultima primula rossa di Cosa nostra) per la gestione della serra di contrada Ventrischi. Nel processo celebrato col rito abbreviato, il gup di Palermo ha condannato a tre anni e sei mesi D’Arrigo, a tre anni Messina Denaro e a due anni e sei mesi Girgenti. Assolto, invece, Lojacono.

“Serre di fragole e vigneti trasformati in campi di erba” – “Francesco Lojacono – continua il collaboratore di giustizia – si avvicina a me per il traffico di marijuana. Lui intratteneva rapporti con il mandamento di Porta Nuova (che include anche il quartiere di Ballarò, a Palermo, regno degli uomini di Black Axe, la mafia nigeriana) a cui portava dieci chili ogni tanto. Prendeva di continuo appartamenti a Partinico per l’indoor ma quando dall’Acquasanta gli avevamo chiesto 15/20 chili ci ha fatto storie. Per lo Zen, invece, sono un giochetto, ce ne volevano venti alla settimana”. Nel 2015 la svolta: trasformare le serre di fragole e i vigneti disseminati per le campagne trapanesi in campi di marijuana. “Mi disse che stava mettendo una grossa piantagione da seimila piante a Trapani per soddisfare le nostre richieste e facemmo un accordo: lui la dava a me tutta la produzione e io la giravo ai mandamenti dell’Acquasanta e di Resuttana. Erano loro che si occupavano di fare circolare la marijuana nelle piazze di spaccio”.

Seimila piante, un milione e mezzo – Dove l’erba viene venduta al dettaglio un prezzo che oscilla tra quattro e gli otto euro al grammo. Secondo Macaluso la piantagione di Lojacono avrebbe fruttato in totale un milione e mezzo di euro. Anche per questo motivo per garantire la sicurezza nei campi c’era un vero e proprio servizio di guardiania armata. “Avevano un grosso arsenale, sia nuovo che vecchio – continua il collaboratore – Anche di notte c’era qualcuno che dormiva vicino la piantagione. Loro rischiavano il carcere e non intendevano farsi prendere in giro da nessuno”.

“Stanno spostando le piantagioni” – Un vero e proprio business su scala sempre più ampia che negli anni si è esteso nell’intera provincia di Trapani. Ad Alcamo, per esempio, la polizia ha arrestato alcune settimane fa Salvatore Regina, fratello di un boss locale, che gestiva due terreni coltivati a marijuana sulle montagne di Castellammare del Golfo. Negli ultimi due anni, però, dopo il numero di sequestri di piantagioni è diminuito e stando a uno degli investigatori “non va tralasciata l’idea che è in corso uno spostamento delle serre verso zone ritenute meno assediate dalle indagini”.

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