Musica

Opera di Roma, la Bohéme di periferia di Alex Ollé tra canne, trans e venditori ambulanti

Puccini riletto dalla compagnia catalana La Fura dels Baus: l'amore tra Mimì e Rodolfo si consuma ai margini di un’anonima città contemporanea, sotto le insegne al neon dei locali notturni

di Beatrice Manca

Avere vent’anni, grandi speranze e il frigo vuoto. Dividere un appartamento senza i soldi per l’affitto, innamorarsi della vicina di casa, litigare in strada quando gli unici svegli sono le prostitute e gli spazzini: è la Bohème secondo Alex Ollé, in scena al Teatro dell’Opera di Roma fino al 24 giugno. La Parigi di fine Ottocento, romantica e decadente, non esiste più. Mimì e Rodolfo sono in affitto in un condominio di periferia, tra i venditori ambulanti sui marciapiedi e i locali dove si balla fino all’alba. Una produzione de La Fura dels Baus, compagnia catalana visionaria e provocatoria, cofirmata dal Regio di Torino, il teatro dove Giacomo Puccini la presentò al debutto assoluto. Entusiasta il pubblico, fredda la critica, tanto che la Bohème pareva destinata a scomparire. E invece.

In questa versione iberica, la sartina Mimì incontra il poeta Rodolfo – che scrive con il Mac e non con il calamaio- perché è saltata la corrente nel palazzo. Ma lei è malata, e lui è troppo giovane e troppo spaventato dall’idea di perderla per prendersene cura. Torna nel suo appartamento a dividere la miseria (economica e sentimentale) con l’amico Marcello, pittore squattrinato invaghito della scaltra Musetta. Proprio durante una serata tra amici, tra il vino e gli scherzi di Colline e Shaunard, finisce l’innocenza spensierata, quando Musetta bussa alla porta trascinandosi dietro Mimì stremata. Il finale tragico è Puccini, cioè è melodramma. Rodolfo che, in preda alla nostalgia, scorre le foto sul cellulare è una brillante intuizione della regia ed è la chiave del successo di questo allestimento. “Quel che è più importante nella Bohème – dice il regista – è la forza della gioventù. E’ un’opera che parla ancora al pubblico perché tutti siamo stati giovani”. Ollé non si limita a traslare l’opera di centoventi anni, ma trova i dettagli che la rendono veramente attuale, familiare al pubblico di oggi come a quello del 1986. Il panico per il padrone di casa che bussa per riscuotere l’affitto arretrato (Benoit, che qui divide una canna con i suoi inquilini). La gratitudine verso l’amico che rientra all’ora di cena con le pizze da asporto (il musicista Shaunard, con il giubbotto di pelle e le cuffie sempre al collo). Le scuse per trattenere la vicina di casa carina, i baci rubati sulle scale antincendio, i selfie per strada e le frecciatine tra un tavolo e l’altro di un locale.

Lo scenografo Alfons Flores ambienta il dramma in una città che può essere la Parigi delle banlieue ma anche Roma o Milano, dove il lucchese Puccini patì veramente il gelo in una stanzetta condivisa con Mascagni. Sotto le luci di Urs Schönebaum, le torri ruotano e diventano ora i palazzoni di periferia con gli impianti di areazione a vista, ora le strade del quartiere latino. Giù in strada, il Café Momus e il suo circo di umanità varia: le cameriere discinte, i trans, i manager al cellulare. Gli intellettuali in pantaloni bianchi e giacca ocra alla Jep Gambardella e i vip con gli occhiali da sole anche a cena. Le sciure ingioiellate che cenano con uomini eleganti e gli uomini eleganti che cenano con signorine giovani e scollate.

C’è tutto Puccini, nella visione della Fura dels Baus. Tutto l’universo bohémienne, contemporaneo e metropolitano: il giocattolaio che vende palloncini ai bambini e gli ambulanti che scappano quando arrivano i carabinieri. Mimì e Rodolfo si lasciano in strada sotto la neve mentre un travestito fuma aspettando i clienti. Marcello litiga con Musetta fuori da un locale, e lì vicino un barbone dorme su una panchina. Niente di epico, niente di magniloquente, eppure tutto vivo, attuale, vibrante. “‘Amo le piccole cose – diceva Puccini – quando sono umane e appassionate”. Nel finale Mimì non muore di tubercolosi ma di cancro, calva, sfiancata dalla chemioterapia. Non chiude gli occhi tra le braccia di Rodolfo, che pure è costretto a fare i conti con la realtà, con la malattia e con la morte. La fine delle belle speranze, dell’ingenuo e ostinato ottimismo. La fine dei vent’anni.

Il catalano Ollé è alla sua quinta produzione per l’Opera di Roma: la sua Bohème, undici recite fino al 24 giugno, chiude la stagione del Costanzi prima della rassegna estiva alle terme di Caracalla. In scena, tre cast diversi: nel ruolo di Mimì si alternano Anita Hartig (giovane soprano romena che proprio all’eroina pucciniana deve la sua fama internazionale) la sudcoreana Vittoria Yeo e Louise Kwong. Accanto a lei, Giorgio Berrugi e Ivan Ayon-Rivas, nel ruolo di Rodolfo; Massimo Cavalletti e Alessandro Luongo, nei panni di Marcello.

Presteranno la voce alla sinuosa Musetta Olga Kulchynska e Valentina Nafornita. La bacchetta è quella del maestro Henrik Nánási che si alternerà con Pietro Rizzo. Hanno rispettivamente 43 e 45 anni: non saranno i 29 di Toscanini, che nel 1896 diresse la prima assoluta, ma è di buon auspicio.

Opera di Roma, la Bohéme di periferia di Alex Ollé tra canne, trans e venditori ambulanti
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