È stata la mia prima campagna elettorale da candidato. Domenica avrei dovuto serenamente aspettare il risultato di un mese pieno di incontri, in cui ho provato ad affermare che anche in un Comune commissariato della Campania – con un ex sindaco finito sotto inchiesta per tangenti sui rifiuti – può essere possibile cambiare la politica, riprendendo la strada del coinvolgimento e della partecipazione.
Anche a Qualiano, altro Comune campano, si andava al voto. Apprendo sui media di elezioni inquinate dalla compravendita di voti. Il mercimonio della democrazia per un compenso oscillante tra i 30 e i 50 euro. E penso che il voto ha perso dignità perché la politica è diventata sinonimo del più spregiudicato agire nell’interesse di pochi e non per il bene della collettività, ma anche perché gli elettori si sono adeguati a questo modo di fare politica senza opporre resistenza intellettuale. E così, voto di scambio, voto clientelare, voto venduto per poche decine di euro. Significa sputare sulla propria libertà di pensiero, rinunciare alla volontà di far valere i propri diritti, farsi trattare da persone prive di intelletto ed esserne contenti.
Ma cosa c’entra Qualiano con la mia campagna elettorale a Torre del Greco? Il primo elemento comune è il “prezzo” della democrazia. Voci insistenti, così insistenti da riecheggiare in ogni vicolo della mia città, da soffocare sul nascere ogni speranza di riscatto: “20 euro prima del voto e 30 euro dopo”, “100 euro per 4 voti”, “bisogna fotografare la scheda elettorale dopo aver votato”, e poi i nomi di alcuni candidati indicati come quelli disponibili a pagare per i voti. Speri che siano solo voci, perché altrimenti sai di non avere speranza. La tua campagna elettorale sarà costata in tutto 100 euro e qui si parla di “investimenti” di decine di migliaia di euro. Una vera e propria scalata al “Comune S.p.a.”.
Non ho abbastanza elementi per denunciare, per far saltare il banco, per fermare tutto. Le voci però sono sempre le stesse, i nomi sono sempre gli stessi, li ascolti al bar, nei negozi, dalle persone che incontri. Lo sa l’intera città ed è così da sempre – dicono tutti – ogni campagna elettorale, da anni. Comincio allora a confrontarle tra loro queste voci, a verificarle, riscontrarle e, quando sono attendibili, a segnalarle alle redazioni.
Il 10 giugno decido di iniziare il classico giro per i seggi proprio da quello più chiacchierato: l’Istituto professionale Cristoforo Colombo di Corso Garibaldi. È qui che – dicono quelle voci – avverrà ogni genere di irregolarità, fino alla compravendita dei voti. Drappelli di persone appostate nei pressi della scuola fermano gli elettori prima che arrivino all’ingresso del seggio, gli fanno capannello attorno e sembrano spiegare qualcosa, le proteste di elettori che non vogliono lasciare il cellulare fuori dalla cabina elettorale non tardano ad arrivare. Le segnalazioni di indicazioni di voto date spudoratamente fuori dal seggio in pieno silenzio elettorale cominciano ad arrivare da ogni angolo della città, dove sono io la situazione degenera in rissa. Continua così per tutto il giorno e le forze dell’ordine faticano ad impedirlo.
Trascorro la notte in bianco ad attendere i risultati, come da tradizione. Gli elettori hanno scritto il mio nome sulla scheda 199 volte, il mio partito ha raccolto in totale 873 preferenze. Sorrido quando vedo che ci sono candidati che da soli hanno preso tanti voti quanti ne ha presi tutto il mio partito, mi sorprendo quando leggo i nomi di chi, alla prima candidatura, è riuscito a sfiorare i mille voti. Sorrido perché se a quei voti corrispondessero idee e proposte diffuse con una forza minimamente paragonabile al consenso ottenuto, la campagna elettorale sarebbe stata dominata da quelle idee e non dalle voci di voto di scambio. E mi chiedo attraverso quali canali viaggi il consenso.
Una risposta a questa domanda è arrivata ieri dal sito giornalistico Fanpage che a tutte quelle voci ha dato volti e nomi, descrivendo nel suo servizio parte di un sistema ben più ampio e diffuso, atto a pilotare e inquinare il voto.
Nomi e volti, ma non una risposta a tutte le mie domande. Non basta la retorica della dignità svenduta o della messa all’asta dei propri diritti. Bisogna chiedersi perché, quali sono gli interessi che spingono chi compra e la realtà sociale da cui proviene chi vende, descrivere i meccanismi che fanno leva sulla povertà a fini elettorali. Si finisce altrimenti per alimentare pregiudizi che creano ghettizzazione sociale e culturale ma proteggono chi muove i fili. Se le fasce deboli della popolazione, per necessità, sono sensibili al denaro, quelle benestanti muovono la macchina del consenso per poterne avere ancora di più: appalti, favori politici, nomine, scatti di carriera, lavoro. L’unica differenza tra i due fenomeni sta nei rapporti di forza.
Bisogna capire cosa muove la scalata al “Comune S.p.a.” e non è alla banconota da 20 euro passata fuori al seggio che bisogna guardare ma alle centinaia di migliaia di euro che trasformano la campagna elettorale nella corsa individualistica a incarichi, poltrone, gestione di fondi e di interessi.
Si andrà al ballottaggio tra il candidato sindaco più votato (con il 35%) Giovanni Palomba, supportato da una coalizione di liste civiche, e Luigi Mele, sostenuto da Forza Italia, Democrazia cristiana, Fratelli d’Italia, Noi con l’Italia, Lista civica Mele Sindaco (attestatosi al 15%). Qualunque sia il risultato, la futura composizione del Consiglio Comunale sarà rappresentata per più della metà dei 25 consiglieri da persone già appartenenti alla vecchia amministrazione, più volta finita nel polverone di inchieste giudiziarie, fino all’ennesimo scandalo delle mazzette sui rifiuti che ha coinvolto l’ex sindaco Ciro Borriello, portando il Comune al commissariamento.
Bene, sorrido ancora, perché non c’è una sola persona, tra quelle incontrate in campagna elettorale, che non abbia pronunciato la parola “cambiamento” almeno una volta nel corso della nostra conversazione e allora mi chiedo come sia possibile ritrovarsi ad essere governati dalla stessa politica e dalle stesse persone se in giro c’è tutta questa voglia di cambiare. E invece finisce sempre che “bisogna cambiare tutto per non cambiare niente”.