Con uno straniante corto circuito comunicativo il deflagrare dell’ennesimo scandalo romano si è sovrapposto alla presentazione a Palazzo Madama del rapporto annuale dell’Autorità nazionale anticorruzione da parte del Presidente Raffaele Cantone. Da un lato il disvelamento di un tessuto di corruzione “pulviscolare e sistemica”, come lo definiscono i magistrati, dall’altro i progressi nel funzionamento della macchinosa attività istituzionale di prevenzione del malaffare. Di certo, lo stesso Cantone converrà che di strada da percorrere sulla via della trasparenza ce n’è ancora parecchia, almeno a giudicare da un rapido scrutinio dalle risultanze dell’inchiesta capitolina.

Le tecniche corruttive adottate dal costruttore Parnasi sono solo apparentemente datate, nonostante uno dei suoi collaboratori si spinga a criticarne l’operato: “Se la mentalità è quella… per me non funziona più… o lo fai a tutti sempre altissimo livello oppure non lo so… credo che sia una mentalità italiana che sta un po’ scemando… è rimanere troppo anni Ottanta, lui purtroppo è abituato solo a questo metodo”. Si tratta, a ben guardare, di un rilievo ingiustificato. Se la corruzione sistemica richiede un esercizio aperto “a tutti” e “ad altissimo livello”, questo è precisamente quanto emerge dalla ragnatela di relazioni tenacemente intessuta dall’imprenditore. Del coinvolgimento a 360 gradi sappiamo dall’elenco degli esponenti tirati in ballo, indagati o meno: Pd, Leu, Fi, Lega, M5S. Quanto all’altissimo livello dei contatti, basti la dichiarazione “lo conosco personalmente come una persona perbene” del vicepremier leghista Salvini, a difesa dell’onorabilità del costruttore dopo l’arresto, per tacere degli incontri con l’imprenditore preparatorie alle intese di governo.

Come negli anni di Mani Pulite la corruzione pulviscolare di piccolo cabotaggio e la corruzione sistemica non sono realtà a compartimenti stagni. Al contrario, si stratificano l’una sull’altra: la piccola tangente per il funzionario che deve accelerare una pratica o chiudere un occhio sull’irregolarità viene versata dagli stessi emissari dell’azienda, che perfezionano coi suoi superiori e coi dirigenti i passaggi procedurali – e i sottostanti scambi occulti– necessari a condurre in quelle speculazioni immobiliari. Ben conosciute da tutti i partecipanti al gioco – e a quelli disponibili a giocarlo – prassi e regole della corruzione sistemica, specie quella che sancisce l’inderogabilità della tangente per i grandi affari (come la realizzazione dello Stadio della Roma). Pochi attriti tra corrotti e corruttori, nessun malinteso o incomprensione, un solo incidente certificato di percorso: i maldestri tentativi di esportazione del metodo in altri contesti territoriali espone al rischio di un’imprevista integrità dell’interlocutore, come nel caso dell’assessore milanese che respinge sdegnato la profferta di un immobile in regalo “Scajola style”.

Ma il “metodo Parnasi”, come emerge dalle risultanze giudiziarie, affonda forse i piedi nella melma dei ruggenti anni Ottanta pre-Tangentopoli, ma di certo ha la testa ben protesa verso il futuro. Emerge una sorta di “mafietta capitale” che, proprio come l’originale ad alta caratura criminale, tende ad assoggettare e infine asservire una politica stracciona soltanto col peso di contropartite sottobanco tutto sommato modeste, senza neppure necessità d’intimidazione. L’investimento in politica – meglio se irregolare o illegale, così genera anche un potere di ricatto sul destinatario – era e rimane precondizione necessaria per condurre affari che richiedono un coinvolgimento di politici o di amministratori nominati: “È un investimento che io devo fare molto moderato rispetto quanto facevo in passato, quando ho speso cifre che neanche te lo racconto. Adesso ci sono le elezioni e io spenderò qualche soldo ma la sostanza è che ora la mia forza è che alzo il telefono…”. Proprio come nell’originale “Mafia capitale”, investire nelle campagne elettorali degli amministratori eletti serve ad averli poi “a disposizione”, basta “alzare il telefono”.

Un alto rendimento in termini politici è atteso anche dal contributo di 250mila euro versato alla misteriosa associazione politico-culturale milanese (che non ha un sito, non un programma di attività…) crocevia di entrate e uscite dai bilanci di enti che si collocano nella galassia proprietaria della Lega sovranista. Essa servirebbe a “creare un sistema di imprenditori, appaltatori”, spiega l’imprenditore, “ed è stato anche un veicolo con cui io mi sono accreditato in maniera importante no. Ho organizzato cene, ho portato imprenditori, ho fatto quello che, tu mi insegni, un ragazzo di 38 anni all’epoca doveva fare per crescere a Milano”. Ecco le chiavi del successo imprenditoriale: occorre mostrarsi capaci di costruire relazioni, accreditarsi con eventi conviviali, moltiplicare i contatti coi titolari di incarichi pubblici, e naturalmente foraggiarli generosamente.

A marcare una divergenza da Mani Pulite lo spostamento deciso del baricentro del potere opaco della corruzione verso il settore privato. Nell’ultimo scandalo romano l’impresa, con la sua struttura aziendale di comando, ha esautorato politici, partito, dirigenti: essa è diventata la vera cabina di regia del malaffare, al punto che i magistrati ipotizzano l’esistenza di un’associazione a delinquere sovrapposta ai vertici dell’azienda, che opererebbe concordemente sotto la regia dei suoi vertici. Entità private sono le stesse associazioni e gli studi professionali che si prestano quali sedi di trasmissione e dissimulazione delle contropartite di questa corruzione “pulviscolare e sistemica”.

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