I Centri di permanenza per il rimpatrio versano in “condizioni materiali e igieniche scadenti” e nella loro gestione (pubblica) c’è “scarsa trasparenza”. Si tratta delle stesse strutture, previste dal decreto Minniti, che il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha annunciato di voler estendere. Lo mette in luca la relazione annuale del Garante delle persone detenute e private della libertà presentata al Parlamento. E criticità emergono anche nelle operazioni di rimpatrio, monitorate dal garante Mauro Palma. Nonostante fossero state mosse contestazioni anche nel 2017, senza però che il Viminale abbia corretto quanto segnalato.
A distanza di poco più di un anno dal decreto Minniti, che puntava a passare da una disponibilità di circa 400 posti distribuiti nei 4 centri in funzione al momento dell’entrata in vigore della norma (Roma, Torino, Brindisi e Caltanissetta) a una capienza di complessivi 1.600 posti, “va purtroppo rilevato – riferisce il report – che le rinnovate espressioni di impegno a favore dell’assoluto rispetto dei diritti fondamentali sono rimaste dichiarazioni di principio, cui non ha fatto seguito un effettivo miglioramento delle condizioni di vivibilità e/o una diversa impostazione organizzativa delle strutture”.
Il garante segnala “scadenti condizioni materiali e igieniche delle strutture, assenza di attività, mancata apertura dei Centri alla società civile organizzata, scarsa trasparenza”. A partire, spiega la relazione, dalla “mancanza di un sistema di registrazione degli eventi critici e delle loro modalità di gestione”, oltre alla “non considerazione delle differenti posizioni giuridiche delle persone trattenute” e “delle diverse esigenze e vulnerabilità individuali, difficoltà nell’accesso all’informazione, assenza di una procedura di reclamo per far valere violazioni dei diritti o rappresentare istanze”.
Il dossier si sofferma anche sulla gestione dei rimpatri e sugli hotspot. Da marzo 2017 a giugno 2018 sono state monitorate 16 operazioni di rimpatrio forzato con partecipazione dello staff del Garante nazionale a bordo dell’aereo, di cui 13 voli charter verso la Tunisia e tre verso la Nigeria. Diverse le criticità rilevate: dal “tenere anche per molte ore i polsi dei rimpatriandi legati tramite delle fascette in velcro, indiscriminatamente e in assenza di comportamenti apertamente non collaborativi”, al “non avvisare gli interessati per tempo dell’imminente rimpatrio, e cioè con un anticipo utile a verificare eventuali aggiornamenti della propria posizione giuridica, prepararsi non solo materialmente ma anche psicologicamente alla partenza e avvisare i familiari del proprio ritorno in patria”.
Forti sono le perplessità del Garante anche riguardo all’opportunità di organizzare voli di rimpatrio forzato verso Paesi, come l’Egitto e la Nigeria, “che non hanno istituito un meccanismo nazionale di prevenzione della tortura“. I rilievi, si sottolinea nella relazione, sono stati segnalati già dallo scorso anno al ministero dell’Interno, ne è seguita “l’inerzia (…) nel dare riscontro alle raccomandazioni inoltrate tramite i rapporti di monitoraggio”. Riguardo agli hotspot, tra marzo 2017 e aprile 2018, il Garante ha condotto 7 visite nelle strutture di prima accoglienza. “Continuano a essere luoghi dalla natura giuridica incerta, rispondenti a differenti funzioni che ne mutano continuamente il carattere e la disciplina”, sintetizza Palma. “Dal 2017 per decreto si è stabilito che la privazione della libertà per chi dovesse essere forzatamente rimpatriato venisse eseguita in centri regionali rispettosi dei diritti di chi nulla ha commesso – scrive – L’attesa di questi centri ancora permane. La sfida è che nel concreto si applichi quanto previsto”.
“Se da un lato appaiono come luoghi a vocazione umanitaria per le attività di primo soccorso e assistenza, e di informazione e di prima accoglienza per chi ha manifestato la volontà di richiedere la protezione internazionale – si legge nel dossier – dall’altro sono luoghi di svolgimento delle procedure di polizia di pre-identificazione e fotosegnalamento e di avvio delle operazioni di rimpatrio forzato”. In questo modo, conclude il dossier, rischiano “di generare zone d’ombra divenendo di volta in volta strutture aperte o chiuse a seconda delle esigenze dell’Autorità di pubblica sicurezza e delle procedure messe in atto”.