“Un grande equivoco, è tutto un malinteso“. Dopo due giorni di silenzio il vicepremier Luigi Di Maio commenta l’inchiesta sullo stadio della Roma che ha portato all’arresto del costruttore Luca Parnasi e dell’ex presidente di Acea, Luca Lanzalone. E lo fa rispondendo velocemente ai cronisti lungo i pochi metri che lo portano al palco di piazza Indipendenza a Pomezia, cittadina a sud di Roma, dove il 24 giugno il Movimento 5 stelle si gioca il comune al ballottaggio: dopo averlo amministrato con Fabio Fucci (ora fuori dal M5s e battuto al primo turno) questa volta corre l’aspirante sindaco Adriano Zuccalà.  Amministrative a parte, però, a fare notizia nella serata di Pomezia è il punto di vista di Di Maio sull’inchiesta capitolina.

Un commento ridotto solo a quelle sette parole: “Un grande equivoco, è un grande malinteso”. Il capo politico del M5s, infatti, viene citato più volte nelle intercettazioni da Lanzalone. Come quando – annotano gli investigatori – Parnasi chiede a Lanzalone “se Luigi (Di Maio, ndr) sa del lavoro fatto con Giancarlo (Giorgetti, ndr) e Lanzalone dice di sì. I due concordano che questa cosa sia stata utile”. Il riferimento era alla cena con Giorgetti. Di Maio, interpellato dal Fatto, fa sapere che non sente parlare di Parnasi da oltre un anno, da quando si chiuse la vertenza sullo stadio di Roma e di non aver mai saputo di cene sul governo in casa del costruttore con Lanzalone e Giorgetti. Di Maio fa anche sapere che nelle ultime settimane i rapporti con Lanzalone si erano esauriti. Lo stesso avvocato genovese usava il nome dell’attuale ministro dello Sviluppo Economico per provare a farsi aprire le porte di Palazzo Chigi. Mi manda Luigi Di Maio”, diceva presentandosi come esponente di un esistente “comitato nomine” del M5s.

Lo stesso Giorgetti, in un’intervista al Fatto Quotidiano in edicola, minimizza il ruolo dell’immobiliarista e la cena del 12 marzo con Lanzalone, della quale Parnasi si vanta: “La cosiddetta cena segreta era un aperitivo… un bicchiere di vino e qualche fetta di salame”. “Come Lega siamo sereni, il Governo l’abbiamo deciso altrove non a cena. La responsabilità me la prendo io e Luigi Di Maio“, ha detto ieri sera il ministro dell’Interno e leader del Carroccio Matteo Salvini da Ivrea.

Tirato in ballo più volte dal Pd, invece, i guardasigilli Alfonso Bonafede non ha rilasciato alcun commento – “Non commento indagini in corso”, ha detto – ma davanti ai suoi avrebbe mostrato “forte irritazione” di fronte ad alcuni titoli di giornali che parlano di “imposizione“, da parte sua, di Lanzalone al comune di Roma. Il riferimento è probabilmente per gli articoli di stampa che riportavano le parole di Virginia Raggi. Interrogata dai pm come persona informata sui fatti, la sindaca ha ridimensionato il rapporto tra il Campidoglio e Lanzalone. “Non ha mai preso alcuna decisione, era solo un consulente del Campidoglio senza poteri”, sono le parole della prima cittadina ai pm. Per il tribunale di Roma Lanzalone era un consulente di fatto del Campidoglio e quindi un pubblico ufficiale, con “il potere di orientare le scelte”, scrive il gip nell’ordinanza. Di qui, l’accusa di corruzione. Ed è proprio sul ruolo dell’avvocato genovese che si è tenuta la testimonianza della sindaca, completamente estranea all’inchiesta. Davanti al pm Paolo Ielo, Raggi ha ricostruito la genesi dei rapporti con Lanzalone: a consigliarle il suo nome fu lo “staff enti locali”, cioè Alfonso Bonafede, ora guardasigilli, e Riccardo Fraccaro, ora a capo del ministero per i Rapporti con il Parlamento.

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