Sul “caso Aquarius” e sulle numerose violazioni delle norme giuridiche che hanno caratterizzato l’azione del governo italiano si sono espressi i migliori giuristi. Resta poco da aggiungere sul punto. Ciò che forse si è trascurato nell’analisi non è la sostanza delle decisioni prese ma lo stile, la forma che hanno assunto tali decisioni. L’azione del governo italiano è stata caratterizzata, in tutti i passaggi, dall’imposizione della forza: invece che seguire le prescrizioni formali, le garanzie e le procedure (ad esempio: si poteva far entrare la Aquarius e, in seguito, chiedere nelle sedi prestabilite l’attribuzione di eventuali responsabilità al governo maltese o ad altri soggetti) si è seguita la via della forza. È bastato l’ordine impartito da un ministro, magari soltanto verbalmente, via telefono, per sospendere tutti gli ordinamenti in vigore, per far fuori d’un colpo tutte le istituzioni poste a loro garanzia.
È grave? Sì. È una novità? Purtroppo, no.
Nel campo dell’immigrazione, tutti i governi – dall’unità d’Italia a oggi, seppur con diversa intensità – hanno espresso le loro politiche quasi esclusivamente attraverso la forza. Il diritto formale, quando esisteva, è sempre stato considerato un orpello inutile, trascurabile, visto che le vere decisioni (quelle che effettivamente determinano la condizione sociale e giuridica degli immigrati) sono state assunte, prevalentemente, in via informale: attraverso circolari amministrative, per quanto riguarda il territorio nazionale, e attraverso accordi informali o “tecnici” (i cosiddetti “memorandum d’intesa” che non necessitano la ratifica del parlamento per diventare effettivi) per quanto riguarda il territorio oltreconfine.
Le politiche dell’immigrazione, dunque, si sono distinte per il loro carattere opaco, informale e autoritario. Le categorie moderne del diritto, quelle su cui si fonda lo stato di diritto, non hanno mai davvero riguardato le popolazioni straniere. Il modello, si sa, si è costruito nelle colonie italiane, laddove ogni decisione e provvedimento era espressione della funzione amministrativa, dell’ordine del capo o del ministro. Le popolazioni colonizzate erano considerate, de jure et de facto, dei semplici oggetti di dominio. L’espulsione delle popolazioni straniere (molte provenienti proprio dalle ex-colonie italiane) dalla soggettività giuridica moderna è così diventato il perno delle successive politiche migratorie.
Negli ultimi 20 anni questo processo si è intensificato parallelamente all’incremento del modello di governance nella sfera della gestione di ciò che è pubblico. La governance, diversamente dal “governo”, privilegia procedure e pratiche operative mutuate dal privato, caratterizzate dal primato degli organi esecutivi, da forme para-normative nell’esercizio del potere e dalla logica del just in time.
Le norme giuridiche vengono sostituite da norme morbide (soft law), modellabili e modificabili a seconda delle esigenze di chi esercita il potere in un dato momento, appunto just in time. Le istituzioni poste a garanzia delle norme rigide (giuridiche) sono di fatto esautorate e sostituite da nuovi organismi, ibridi, liquidi, opachi e soprattutto inafferrabili.
Un esempio tipico di questo modello di gestione lo ha rappresentato il “codice di condotta per le Ong”, così osannato da stampa, governanti e forze politiche di tutti i colori. Il “codice”, nonostante il nome altisonante, non è che una circolare amministrativa, cioè un atto che dal punto di vista giuridico vale zero. Non a caso, infatti, il rifiuto dei Medici denza frontiere e altre Ong di apporre la propria firma ne ha svelato il segreto (di pulcinella): per operare bene e nella legalità è sufficiente applicare le norme giuridiche previste dall’ordinamento e dai trattati internazionali. Le conferenze stampa, le strette di mano, i riflettori degli studi televisivi, i crucci elencati, le dichiarazioni urlanti e minacciose (“Chi non sottoscrive il codice è fuori”) contro le Ong che non hanno firmato facevano parte del processo di legittimazione sociale delle politiche autoritarie espresse nel “codice”. I cambiamenti nel modello di gestione delle migrazioni hanno portato delle modifiche anche nei processi di legittimazione sociale e politica delle azioni governative.
La chiusura dei porti alle navi cariche di emigranti, operata ora dal nuovo governo, rappresenta un’ulteriore spinta nella direzione autoritaria, la cui validità non è data, weberianamente, dal sistema di regole razionali (statuite o pattuite) ma da altri elementi: ossia dall’autorità personale/il carisma o dalla tradizione. Si tratta di una legittimazione fondata su elementi irrazionali e rapporti di autorità di tipo assolutista. Lo stato di diritto è esautorato.
Il nuovo governo, rispetto a quello precedente, non fa che rendere esplicito, trasparente e senza fastidiosi crucci, questo processo e il suo modo di avanzare.
Di fronte a tale inarrestabile andamento, che liquida a piacere ordinamenti e istituzioni, che modifica i modelli di legittimazione sociale e politica, che con le sue pratiche opache e just in time sancisce l’inafferrabilità e l’irresponsabilità del potere in ogni circostanza, le critiche in circolazione (correttissime dal punto di vista degli ordinamenti), i richiami alla Costituzione e le promesse/minacce di denunce penali o ricorsi davanti a Tribunali internazionali lasciano l’amaro in bocca, non disturbano i manovratori: suonano anacronistiche, non all’altezza dei tempi. Lo percepiamo bene noi ma coloro che patiscono il freddo, il sole cocente, la fame, la sete e anche la morte nel Mediterraneo lo sentono fin dentro le ossa.
Forse è giunto il momento di raccogliere il guanto di sfida che viene lanciato ogni giorno e iniziare a pensare a forme di protesta adeguate e incisive, in grado di riportare in vigore l’efficacia dei diritti.