Le immagini che abbiamo diffuso recentemente da una decina di allevamenti italiani per la produzione di uova non lasciano adito a dubbi: la vita per le galline è dura e molto breve. Praticamente insostenibile.
Noi questi allevamenti li chiamiamo “fabbriche di uova”, perché è quello che sono. Quando delle aziende portano sul mercato oltre 10 miliardi di uova sono da considerarsi vere e proprie fabbriche. Ma in queste fabbriche al posto di macchinari ci sono animali creati tramite decenni di selezioni per produrre il più possibile in meno tempo (e nel minor spazio). E come in tutte le fabbriche quando una macchina si consuma e diminuisce il rendimento la si cambia: dopo meno di due anni tutte le galline vanno al macello, si svuotano i capannoni e si parte con un nuovo ciclo.
Ora, questo non accade solo negli allevamenti in gabbia o a terra. Accade in tutte le tipologie, anche in quelle definite “all’aperto” e perfino nel biologico. Cambiano alcune modalità di allevamento, ma non la mentalità: la gallina è come una macchina e deve produrre il massimo al minimo costo e nel minimo spazio.
Comunque oggi gli italiani consumano ancora per il 60% uova da galline in gabbia, seguite dal 325 di quelle allevate a terra (dati Assoavi). Queste due tipologie di allevamento costituiscono la stragrande maggioranza della produzione ed è il motivo per cui la nostra indagine si è concentrata sulle problematiche che comportano.
Nella mente del consumatore l’idea di un uovo è legata a un qualcosa di naturale. E la risposta più comune quando si presentano queste problematiche è “sì, però mangiare uova è normale”.
Ma pensare a una gallina chiusa in una gabbia, che depone uova su una grata inclinata da cui poi cadono su un nastro trasportatore non è proprio sinonimo di natura. Ed è su questo che dovremmo iniziare a riflettere: oggi tra allevamenti a terra e in gabbia teniamo chiuse in capannoni senza nemmeno una finestra più di 34 milioni di galline. Vengono alimentate da macchinari automatizzati, con luce artificiale e cicli giorno/notte sbalzati. Vivono in una situazione tutt’altro che naturale, fatta di sovraffollamento, privazioni, stress, sofferenza.
Ci dispiace dirlo con tanta fermezza, ma in queste uova di naturale non c’è proprio niente.
E a questo punto possono sorgere due tipi di domande: la prima che fanno tutti è se esistono metodi produttivi che non portano sofferenza alle galline, verso quali orientare le proprie scelte. Certo, ci sono allevamenti con una densità leggermente ridotta, dove le galline per poche ore al giorno possono vedere il sole, ma non esistono allevamenti in cui al posto di ogni gallina non sia stato triturato un pulcino maschio (perché inadatto a produrre uova) o che non mandi tutte al macello quando il loro rendimento economico si riduce.
Ma c’è un’altra domanda che meno persone si fanno, una domanda che va più a fondo e che forse per questo risulta più scomoda: mangiare uova è davvero necessario, abbiamo davvero bisogno di mangiarne così tante?
E che si possa benissimo vivere senza ormai lo dicono tutte le accademie di nutrizione, mentre se guardiamo bene al supermercato si trovano tranquillamente lasagne e cannelloni senza uova, così come maionese, pasta frolla, brioche, biscotti e persino preparati per crema pasticcera. Insomma, non è impossibile iniziare a farne a meno.
Decine di milioni di galline sono infatti chiuse negli allevamenti intensivi per rispondere alla domanda di 216 uova l’anno di ogni italiano, tra intere e in prodotti pronti. Non c’è altro modo: per arrivare a questi numeri la maggioranza delle galline italiane devono stare in 13 per metro quadrato. Dare loro più spazio non sarebbe possibile, significherebbe usare milioni di metri quadri di territorio per costruire nuovi allevamenti.
Quando vediamo le immagini di galline in gabbia o di altri animali in allevamenti sovraffollati non dobbiamo quindi puntare il dito verso un marchio o un allevatore crudele, ma riflettere su come un sistema produttivo fatto di domanda e offerta abbia portato a questi metodi di sfruttamento degli animali. E di conseguenza capire che il primo passo per aiutarli passa quindi per forza da noi, dal rivedere i nostri consumi. Non si può invocare nessun serio cambiamento di vita per gli animali senza ridurre la domanda.
E in tutto questo per le galline c’è una buona notizia. Il numero negli allevamenti italiani è passato da 49 milioni a 37 milioni nel giro di pochi anni. Vedremo ancora scendere significativamente questo numero nel prossimo futuro? La risposta spetta a ognuno di noi, anche semplicemente iniziando a leggere gli ingredienti di quello che acquistiamo.