Cultura

Festival delle Letterature Massenzio, il 19 giugno il premio Bancarella Marcello Simoni legge un inedito

Il FattoQuotidiano vi anticipa la lettura del testo dello scrittore, ex archeologo e bibliotecario, nella serata che prevede anche la lettura di inediti di Khaled Khalifa Glen Cooper e di Paul B. Preciado

di F. Q.

Fino al 3 luglio tornano gli appuntamenti nella Basilica di Massenzio al Foro Romano di Letterature Festival Internazionale di Roma, un programma di serate, a ingresso gratuito, con gli autori più interessanti della scena letteraria contemporanea, ideato e diretto da Maria Ida Gaeta con la regia di Fabrizio Arcuri. Martedì 19 giugno alle 21 Marcello Simoni leggerà il suo testo inedito ispirato al tema del Festival, Il diritto/Il rovescio. L’inesauribile corrente delle parole. La serata prevede anche la lettura di inediti di Khaled Khalifa, Glen Cooper e di Paul B. Preciado. La musica H.E.R. (violino acustico e elettrico). Il FattoQuotidiano vi anticipa la lettura del testo di Simoni, classe 1975, ex archeologo e bibliotecario, vincitore del 60° premio Bancarella con Il mercante di libri maledetti, romanzo d’esordio,

Chiamatemi Nembrot.

Siedo a questo scrittoio, una superficie di legno su cui riordino penne e calamai nell’attesa di riempire il vuoto con il caos. Sopra di me si staglia una volta di mattoni scrostati, testimoni di un antico affresco che narrava profezie nate dal Verbo e che ora piove sulla mia testa, un po’ per volta, sotto forma di briciole d’intonaco. Davanti a me, invece, sta una porta. Due volte al giorno, dopo le laudi e prima di pranzo, un novizio la varca per porgermi delle pagine di pergamena ancora sciolte, fitte di testi vergati in latino, in greco e persino in lingua arabica. Si tratta di libri in fieri, particole di volumi in fase di scrittura o di copiatura appartenenti a trattati di teologia, di filosofia e di scienze naturali, dai bestiari fino all’astrologia. Rappresentano, in sostanza, la summa del sapere che l’uomo offre a Dio. La prova più grande e più santa cui tutti noi, che fatti non fummo per viver come bruti, siamo chiamati a prender parte.

Ebbene, il mio contributo all’erezione di questa torre di Babele è singolare. Consiste nel comprendere il contenuto di ogni pagina approdata sul mio scrittoio per poi tradurlo sotto forma di immagini, così da riempire gli spazi vuoti lasciati dagli amanuensi con illuminature, ovvero miniature, destinate a deliziare lo sguardo di chiunque, un giorno, leggerà.

Un compito affatto semplice, essendo io il custode di un segreto: benché svolga questo compito da molti anni, nessuno si è ancora reso conto che so ben poco di latino e nulla di greco e di arabo.

Del resto, prima di giungere in questo cenobio mi esprimevo in un vernacolo agreste. Le poche canzoni passate sulle lingue dei miei avi parlano della morte, della fatica e del succedersi delle stagioni. E quando, ancora fanciullo, ebbi in sorte di giungere fra queste mura per essere ordinato monaco, fui educato a una vita fondata sulle regole della taciturnitas.

Ebbene sì, mi trovo nel regno della parola scritta, non di quella parlata. Qui i monaci comunicano a gesti come i sordomuti, al punto che, persino a mensa, un semplice “passatemi il pane” lo si esprime coi movimenti delle mani. Non mi reputo quindi colpevole se, fin dal primo giorno in questo luogo, il latino significò per me soltanto la nenia della preghiera che tracima nel sopor.

Ma se proprio si volesse tirare in ballo la colpa, una buona parte sarebbe da imputare ai miei confratelli. Sono stati loro che, scoprendomi versato nell’arte del disegno, mi relegarono sin dal principio al ruolo di miniaturista senza prendersi il disturbo d’iniziarmi allo studio delle lingue dotte. Tanto più che quei beoti, nei momenti in cui contemplano il frutto del mio talento, non sollevano mai alcuna obiezione e men che meno manifestano il sospetto che io non legga né interpreti alcunché. Poveretti! Chissà come reagirebbero se scoprissero che, in verità, mi lascio trasportare dal poco che riesco a cogliere tra le righe, travisando il senso delle frasi che scorrono sotto i miei occhi.

Ma non tutte le mie illuminature nascono da interpretazioni, errate o corrette che siano. A volte invento di sana pianta. Come quando improvvisai a margine del testo un mostriciattolo con quattro zampe e la testa ficcata in un elmo trace.

Giunsi quindi alla fase dello “scherzo”, cui diedi inizio deformando il contenuto dei testi. In principio mi limiti a prender di mira alcuni vocaboli dalla grafia grossolana, decorandoli con minuscoli orpelli. Poi passai alla fase davvero infame: accanendomi su alcune parole o frasi scelte a caso, iniziai a cancellarle col raschietto per sostituirle con altre di mia invenzione.

E con la padronanza degna di un amanuense, vergavo delle sciocche filastrocche del tipo pulzella culatella te saltella e diabulo forcutulo cecatulo, oppure sfondoni come chicchirichietus, suguguguzettate e gurugurugurumostrus.

Mi divertivo un mondo al pensiero dei lettori destinati a uscir di senno nel tentativo di interpretare quelle perle senza senso, credendole partorite dalle meningi di Gioacchino da Fiore, di Macrobio o di Duns Scoto. Finché pure quel passatempo mi venne a noia, mettendomi di fronte alla necessità di escogitare qualcosa di nuovo.

Fu così che decisi di scrivere un libro tutto mio.

Un libro che sarebbe nato in segreto, al pari delle mie azioni di pirateria verbale, disseminato in molti altri libri senza che nessuno se ne accorgesse. Il piano consisteva nel cancellare qua e là le parole altrui per sostituirle con le mie, come se scomponessi un lungo messaggio in tanti stralci che infilavo in altrettante bottiglie da affidare al mare.

Ero galvanizzato dall’idea, letteralmente al settimo cielo.

Ma di cosa avrei parlato?

Grattai via col raschietto un paragrafo delle Confessioni di sant’Agostino per far posto a quello che sarebbe stato l’incipit della mia opera, e scrissi:

Ego sum illuminator.

“Io sono il miniaturista”.

Andai a capo e continuai: Illuminatura est… Indugiai un istante, poi andai di seguito: est lucem, et lumen pulchro, et etiam alumen clarum et aureum ut focum alchemicum. Alchimia depicta, ludus iocundum de figura pulchra, labyrinto misteriosum ut silva intricata…

Ormai ero un fiume in piena, non riuscivo a fermarmi.

Forse la mia prosa non eguagliava l’eleganza di Pier Damiani. Forse conteneva bestialità che avrebbero fatto rizzare i capelli a un magister litterarum.

Ma quello ero io, dannazione!

Io, nella mia purezza, nella mia confusione mentale, nella mia sovversiva brama di esistere. Al diavolo il resto!

Ebbene, sono ormai dieci anni che scrivo questo libro.

Dieci anni che cancello impunemente i pensieri altrui per sostituirli ai miei. Senza che finora nessuno se ne sia accorto.

La qual cosa assai m’inquieta.

Possibile che nessuno legga i libri che escono da questa stanza? Che io sia l’unico in questo monastero-mondo-universo ad aver soffermato lo sguardo su di essi?

In fin dei conti è una possibilità.

L’altra, assai più terribile, è che io sia impazzito.

Che mi sia perso nello stesso caos che tanto mi diletto a seminare.

di Marcello Simoni

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