Nick Drake, nato Nicholas Rodney Drake il 19 Giugno 1948, è giunto a noi suo malgrado. Malgrado fosse più maledetto che bello, malgrado non avesse raccolto nulla in vita se non il pretesto utile per chiudere con tutto e tutti, imbottendosi di pillole per di più in casa sua perché tornato a vivere coi genitori. La sua musica verrà riscoperta anni e anni dopo, a partire dai Novanta, grazie a una persistente quanto efficace opera di riproposizione e del suo esile catalogo e della manciata di inediti cui andava lavorando prima di morire, unita all’utilizzo fatalmente sincronico delle sue canzoni per questo o quello spot.
In bilico per pochi anni tra palco e studio, Drake non faticò giovanissimo a ottenere un contratto con la Witchseason production (poi acquisita dalla più nota e potente Island records), grazie alla stima e alla considerazione che riuscì a guadagnarsi presso gruppi e artisti tra i più noti dell’epoca, i quali per primi tentarono di forzarne lo sguardo: introducendolo nei corridoi che sarebbe valso la pena percorrere fino in fondo.
I Fairpoart convention, che assieme a lui misero nero su bianco le coordinate del nascente folk rock, così come l’asso dei Velvet underground poi produttore John Cale, contribuirono alla riuscita dei suoi lavori: su pressione anche dei discografici che non volevano la musica di Drake, già probante, venisse limitata al combo autarchico voce-chitarra. Dal 1969 al 1972, ossia dai 21 ai 26 anni, l’artista produsse tre album: di questi, l’ultimo Pink moon è unanimemente considerato, a ragione, una delle pietre miliari della musica rock e, più precisamente, della canzone cantautoriale.
Non meno, l’approccio avvenirista allo strumento fa di Drake un vate del finger-picking e dell’accordatura aperta e alternativa: fattore questo che spiega in parte la reticenza del musicista, nell’esibirsi dal vivo, costretto come era a enormi pause tra un brano e l’altro. La chitarra concepita come un pianoforte, in un susseguirsi di pattern ritmico-armonici praticamente impossibili da trascrivere fedelmente. Di lui non esistono video, solo istantanee: fatto questo che non può che accrescerne il mito. Laddove non è potuto arrivare il resto, ha parlato prima di tutto e tutti l’arte: dall’esordio arrivato con Five leaves left fino alla prima compilation pubblicata postuma Fruit tree, le sue canzoni viaggiano sul filo dell’impossibile. E per bellezza, e per complessità e ricchezza, e per profondità dei testi.
Dopo un breve soggiorno francese farà ritorno nuovamente a Londra per poi stabilirsi, definitivamente, a Tanworth-in-Arden: dove la sua tomba è ancora (neanche a dirlo) una delle principali attrazioni del luogo. Sua madre ne ricorda in ultima istanza le lunghe gambe stese e la ciotola di cereali consumata prima di inghiottire una boccetta di amitriptilina: quella notte, nessuno in casa lo sentì scendere da letto una volta di più, nonostante il livello di allerta fosse già alto.
Una morte accidentale: più che un suicidio quello di Drake sembra l’epilogo perfetto di chi ha potuto ma non voluto, stretto ancor prima di cominciare nell’eterna diatriba tra limpidità e compromesso, anonimato e successo. E il riscatto di cui ha goduto e continua a godere, forse sarebbe per lui – anche oggi compiuti i 70 anni – motivo di forte disaccordo.