Quanti sono ad oggi i migranti ricollocati dall’Italia all’Ungheria o alla Polonia? Zero! Un numero facilissimo da ricordare. Appena ventotto sono i richiedenti asilo accettati da Slovacchia e Repubblica Ceca. Siamo in Europa dell’Est. Questo è il cosiddetto gruppo di Visegrad. Non sono paesi soltanto ad est, non sono estranei. Sono Europa.
La relocation, approvata dal Consiglio Giustizia e Affari Interni a settembre 2015 su proposta della Commissione, prevedeva il trasferimento di 160mila profughi dall’Italia e dalla Grecia in altri Paesi europei, entro due anni. In realtà, dopo l’accordo con la Turchia del 18 marzo 2016, il Consiglio aveva modificato la decisione e l’obiettivo da raggiungere era sceso al ricollocamento di 98.255 persone.
Al 31 maggio 2018, le persone ricollocate dall’Italia sono 12.690 e 21.999 dalla Grecia.
Ad oggi, Ungheria e Polonia hanno rifiutato categoricamente la partecipazione al piano.
È vero l’Italia è stata lasciata sola, economicamente (Relazione della Corte dei Conti La “prima accoglienza” degli immigrati: la gestione del Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo 2013-2016) ma anche politicamente. È riuscita finalmente ad ammetterlo anche la cancelliera tedesca Angela Merkel.
Quanto ci sono costati i mancati ricollocamenti? Al 15 ottobre dello scorso anno la Corte dei Conti calcolava che l’Italia aveva sborsato ben 762,5 milioni di euro per le mancate ricollocazioni verso gli altri Paesi, come è attestato dalla Relazione sulla gestione del fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo 2013-2016 appena licenziata dai giudici contabili.
In cosa consiste il sistema di quote per la ripartizione dei migranti richiedenti asilo tra tutti i paesi Ue? Il punto più importante della riforma approvata dal Parlamento Europeo prevedeva l’eliminazione del cosiddetto criterio del “primo ingresso”, secondo cui ospitare e valutare ciascuna richiesta di protezione internazionale spetta al paese in cui è avvenuto l’ingresso di quel migrante: e quindi Italia, Grecia e in misura minore Spagna.
La riforma proponeva quindi di sostituire il criterio del “primo ingresso” con un meccanismo obbligatorio di ripartizione dei richiedenti asilo fra i 27 Stati dell’Unione in base al Pil e alla popolazione di ciascuno. Questo sistema avrebbe consentito all’Italia, alla Grecia di respirare, ma soprattutto avrebbe favorito finalmente l’introduzione di un metodo partecipativo europeo nella gestione delle crisi.
Dunque, perché il sistema delle quote – seppur approvato – non è mai decollato? Perché tutto il gruppo di Visegrad ha detto NO all’arrivo di migranti.
Ungheria e Slovacchia hanno anche fatto ricorso contro le “relocation” dei richiedenti asilo da Italia e Grecia, ma il 7 settembre del 2017, la Corte di giustizia Ue ha respinto le loro richieste. Nella sentenza i giudici spiegano che “il meccanismo contribuisce effettivamente e in modo proporzionato a far sì che la Grecia e l’Italia possano far fronte alle conseguenze della crisi migratoria del 2015”. Budapest ha definito questa decisione “oltraggiosa”.
Il Consiglio europeo è alle porte, 28-29 giugno. L’Italia sta scegliendo con chi fare ponte, con chi costruire alleanze, con chi inasprire i toni. Il premier Conte ha sottolineato che l’Italia “non è disponibile” a discutere dei “secondary movements”, ovvero il ricollocamento dei migranti dai vari Stati Ue allo Stato in cui sono sbarcati, senza prima aver affrontato l’emergenza dei “primary movements”, gli sbarchi, veri e propri, “che l’Italia – ribadisce Conte – si ritrova ad affrontare da sola”.
Era inevitabile che l’Europa arrivasse così divisa e dilaniata all’appuntamento decisivo. È in gioco molto di più del raggiungimento di un accordo – più o meno – favorevole a noi e agli altri paesi. È in gioco l’Europa.
Ma c’è un leader che più di altri sta guidando la partita. Non da ora. È l’ideologo di riferimento del gruppo di Visegrad, il premier ungherese Victor Orbán, punto di riferimento politico anche del ministro dell’Interno, Matteo Salvini e della leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. Con Orbán Salvini vuole cambiare le regole europee. L’ha dichiarato appena eletto ministro dell’Interno.
Cosa pensa Viktor Orbán dell’Europa, l’ha detto lui stesso nel 2011 durante un discorso tenuto in Parlamento: “Noi non crediamo nell’Unione Europea, crediamo nell’Ungheria, e consideriamo l’Unione Europea da un punto di vista secondo cui, se facciamo bene il nostro lavoro, allora quel qualcosa in cui crediamo, che si chiama Ungheria, avrà il suo tornaconto”. Da quella dichiarazione sono passati 7 anni, l’est è andato esattamente in quella direzione. I nodi sono venuti al pettine quando è scoppiata la crisi migratoria sulla rotta balcanica.
Io c’ero quando Orbàn ha schierato polizia e militari e ha chiuso il confine. Avevamo camminato per giorni attraverso Grecia, Macedonia e Serbia insieme a migliaia di persone in fuga. Siriani, afghani soprattutto. Mutilati di guerra, donne incinte. Mi ricordo anche le bottiglie di latte e acqua lasciate fuori dalle porte dalle famiglie serbe e ungheresi lungo il confine, per i migranti di passaggio.
Oggi l’Ungheria ha una nuova legge. Un emendamento costituzionale stabilisce che “popolazioni aliene” non possono stabilirsi in Ungheria. Il testo passato dai legislatori magiari punisce inoltre l’aiuto a chi vuole arrivare in suolo magiaro per chiedere lo status di rifugiato anche con pene detentive diverse a seconda dei casi, fino a un anno di carcere.
Il vero vertice europeo, dove si decide tutto, anche le nostre sorti, non è quello del 28 e del 29 a Bruxelles. È oggi, a Budapest. Orban ha riunito i suoi e ha invitato anche il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, che si è fatto promotore di un controverso “asse dei volenterosi” con Baviera e Italia contro l’immigrazione illegale.
Nessuno di loro (a parte l’Austria e in minima parte Repubblica Ceca e Slovacchia) ha accolto un migrante da quando è scoppiata la grande crisi. E non vuole accoglierne. Non solo quelli che verranno, ma anche quelli che già sono qui.