"Questo fa capire anche perché Giovanni Paolo II nell'appello del 3 luglio parlò subito di 'responsabili' e fece riferimento ai rapitori", ha detto Pietro Orlandi, che venerdì 22 giugno ha organizzato un sit-in vicino al Vaticano per ricordare la sorella, scomparsa esattamente 35 anni fa
La prima telefonata ricevuta dal Vaticano da parte dei rapitori di Emanuela Orlandi non sarebbe stata quella del 5 luglio 1983, cioè dopo che Giovanni Paolo II aveva già lanciato un appello, ma una arrivata tra le 20 e le 21 della stessa sera della scomparsa della ragazza, avvenuta alle 19.15 di 35 anni fa. A sostenerlo è Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, che venerdì sera in piazza Giovanni XXIII, vicino al Vaticano, ha organizzato un sit-in per ricordare la sorella.
Secondo Orlandi il Vaticano ha tenuto nascosta la telefonata “prima al centralino poi alla sala stampa vaticana dove annunciavano il rapimento di Emanuela e dicevano di voler parlare con la segreteria di stato”. Un nuovo elemento che potrebbe aiutare a fare luce nel buio di una vicenda tutt’oggi avvolta nel mistero, con l’inchiesta sulla scomparsa archiviata dalla procura di Roma nel 2016: “Noi in quel momento non sapevamo che cosa fosse successo a Emanuela mentre in Vaticano già sapevano che c’era stata questa chiamata e l’hanno nascosto fino ad oggi. Questo fa capire anche perché Giovanni Paolo II nell’appello del 3 luglio parlò subito di ‘responsabili’ e fece riferimento ai rapitori, perché già avevano avuto contatti la sera stessa”.
“Noi – ha aggiunto Pietro Orlandi – neanche avevamo fatto la denuncia perché il giorno stesso ci dissero di aspettare, mentre il Papa veniva avvisato in Polonia dove si trovava per un viaggio. Mi sono sempre chiesto, ma possibile che avvisano il Papa per una ragazza che ha fatto tardi a casa? E invece una risposta ce l’ho adesso, perché loro già sapevano di questa telefonata”, dice il fratello della ragazza scomparsa.
Orlandi si appella poi direttamente a papa Francesco, dopo che nel novembre scorso la famiglia ha presentato formale denuncia di scomparsa in Vaticano, Stato di cui Emanuela era cittadina: “Non possiamo rinunciare a cercare la verità, la verità e la giustizia sono un diritto che nessuno potrà mai toglierci, il Papa ci aiuti, lui può chiudere questa storia”. All’epoca, la denuncia fu fatta invece all’ispettorato di polizia presso il Vaticano, e quindi in territorio italiano.