Non mancano i grandi calciatori, ma i grandi allenatori: il calcio mondiale è rimasto senza idee. Brutte partite, risultati striminziti, big in sofferenza e ad un passo dell’eliminazione. Numeri alla mano, l’inizio dei Mondiali di Russia 2018 non è stato proprio entusiasmante (soltanto il gruppo di Panama, che da sola ha incassato 9 reti in 2 match, ha raddrizzato la media gol che altrimenti sarebbe stata la più bassa di sempre). Il problema, però, non è certo in campo: Ronaldo mattatore, Neymar in lacrime e comuque a segno, Messi che è l’ombra di se stesso ma pur sempre Messi, e ancora Modric, Kane, Kroos, Mbappè, campioni ce ne sono tanti, come non mai, e quasi nessuno ha tradito le attese. Il buco è in panchina.
Il minimo comune denominatore di questa edizione e degli stenti delle favorite, è l’assenza di commissari tecnici di livello internazionale: praticamente tutte le nazionali maggiori sono affidate ad allenatori federali (Low della Germania e Southgate dell’Inghilterra), di secondo piano (Deschamps della Francia), vecchi santoni locali (i sudamericani Sampaoli e Tite) o addirittura dirigenti che non hanno neppure mai allenato per davvero (come Fernando Hierro, promosso dalla Spagna dopo il clamoroso esonero in corsa di Lopetegui). Se si guarda al passato, la differenza è abissale: non era mai successo che alla Coppa del Mondo non ci fosse neanche un grande nome della panchina. Nel 2014 il Brasile aveva Scolari (uno che ha vinto tutto, Mondiale compreso), l’Olanda il genio Van Gaal, la Spagna il madridista Del Bosque che con le Furie Rosse aveva appena compiuto la storica doppietta Mondiale-Europeo; nel 2010 in Inghilterra c’era il nostro Fabio Capello, in Italia Marcello Lippi, in Spagna sempre Del Bosque; nel 2006, in ordine sparso, Parreira, Lippi, Hiddink, Advocaat, Aragones. Nessuno dei ct presenti in Russia può essere paragonato al loro livello, per palmares e caratura, tranne Joachim Low (che però è praticamente nato e cresciuto sulla panchina tedesca).
Difficile spiegare le cause di questo fenomeno. La scelta del ct è sempre stata un processo molto delicato, che in ogni Paese segue logiche non sempre lineari (ne sappiamo più di qualcosa anche in Italia). Poi c’è il mito, mai sfatato, secondo cui i grandi allenatori non siano adatti alle nazionali, dove non c’è tempo e modo di applicare i loro schemi, e quindi sia meglio affidarsi a selezionatori puri, o vecchie glorie del passato. Probabilmente c’è anche un fattore economico e mediatico, visto che nessuna Federazione al mondo è in grado di garantire gli stessi stipendi faraonici dei top club europei, e dunque i migliori sono sempre meno tentati dalla suggestione di guidare la squadra del proprio Paese, continuando a inseguire scudetti e Champions League. Quel che è certo che le conseguenze si vedono sul campo: poche reti su azione, tanti penalty e calci piazzati decisivi, pessime prestazioni da chi col talento a disposizione potrebbe fare meraviglie (a partire da Francia e Brasile, forse le due rose migliori del torneo, ma a tratti impresentabili fino a questo punto).
Per divertirsi bisogna guardare altrove, alle sorprese Croazia e Belgio. L’Inghilterra ha dilagato contro Panama, ma fa poco testo. Forse l’unica eccezione è la Spagna, che però un certo tipo di calcio ce l’ha nel dna, ormai quasi non hanno bisogno di un ct (infatti non ce l’hanno), giocano col pilota automatico perché fa parte della loro cultura (e comunque anche loro hanno sofferto a tratti). Le grandi sembrano rimaste senza idee, perché non c’è più nessuno in panchina a pensarle. E spesso in quest’inizio di Mondiale hanno sbattuto la testa contro nazionali di gran lunga inferiori, in certi casi vere e proprio Cenerentole: la Costa Rica che ha fatto piangere Neymar per 90 minuti, l’eroico Iran piegato solo con un autogol dalla Spagna, il redivivo Perù che con la Francia avrebbe strameritato il pareggio, senza dimenticare Tunisia, Australia, Islanda, armate di catenaccio d’altri tempi e tanta buona volontà. Tutte squadre che magari non giocheranno a pallone, ma un’idea di calcio ce l’hanno ben precisa. Mentre le big improvvisano e si affidano ai colpi individuali, le piccole nazionali della periferia del mondo sono sempre più preparate tatticamente. Alla fine vincono comunque le più forti, perché i campioni fanno la differenza. Ma per diventare campioni del mondo è davvero troppo poco.