Oggi day 12. Il sito Ruposters ricorda la vicenda del celebre Nikolaj Starostin, figura emblematica del calcio sovietico finito in un gulag e sopravvissuto (scomparirà nel 1996, a 94 anni). Il servizio di sicurezza Fsb ha declassificato solo parzialmente i dossier che riguardano lui e i suoi fratelli, pure loro calciatori molto famosi e “divulgatori di sport di massa nell’Urss”, accusati di complotto contro lo Stato e Stalin e di aver preparato attentati terroristici nella Piazza rossa. Tutte balle. Nel 1955 il caso fu rivisto, i detenuti riabilitati. Nonostante ciò, il top secret è vincolato per 75 anni dalla fine delle indagini. Il servizio federale di sicurezza ha appena resi pubblici i primi due volumi. Gli altri lo saranno solo nel 2019.
Lo sapevate che Lavrentij Beria, lo spietato capo della polizia segreta sovietica, il sicario delle epurazioni staliniste, era stato un giocatore di calcio? Negli anni 20 militava in una squadra di dilettanti della Georgia. Più muscoli che cervello ma pur sempre un buon giocatore che picchiava duro. E che aveva memoria vendicativa. Non dimenticò mai quando Nikolaj Petrovic Starostin lo ubriacò di dribbling, facendogli fare una figura da pollo. Si incontrarono varie volte. Sul campo i due ebbero qualche screzio. Mentre Beria divenne un stella dei massimi poteri sovietici, Starostin (figlio di un guardaboschi dello zar) sarebbe diventato un grande campione, forse il più popolare dell’Urss. Il capitano della nazionale sovietica. L’idolo degli stadi. Primo sportivo a ricevere l’Ordine di Lenin. Giocava sia a calcio sia all’hochey su ghiaccio, sempre affiancato da tre dei suoi fratelli.
A quell’epoca nella Russia diventata Unione delle repubbliche socialiste sovietiche le quattro squadre di calcio più importanti erano tutte di Mosca e tutte controllate da un organo dello Stato. Il campionato vero e proprio dell’Urss cominciò all’inizio degli anni Trenta. Il Lokomotiv Mosca apparteneva al ministero della Ferrovia (ancora oggi, davanti allo stadio della squadra c’è un vecchio modello di locomotiva). La Torpedo Mosca era invece controllata dalla Zil, la fabbrica automobilistica di Stato. La Cdka (adesso si chiama Cska) era il club dell’Armata rossa mentre la Dynamo Mosca faceva capo al ministero degli Interni e, in particolare, ai servizi segreti. Beria ne divenne il vero dominus.
Nel 1921 Starostin fu invitato a dirigere la piccola squadra di calcio del Moscow Sports Club che in seguito fu ribattezzata Krasnaja Presnja (la “Rossa Presnja”), il quartiere operaio fucina della rivoluzione a Mosca. Nel 1926 Starostin riesce a trovare uno sponsor: l’Unione dei lavoratori del settore alimentare, così pigliò i nomi di Pishchevik e Dukat. Otto anni dopo diventa lo Spartak Mosca (evidente il riferimento rivoluzionario dello schiavo Spartaco che si ribellò a Roma), grazie ai buoni uffici dell’amico Alexander Kosarev, segretario della Lega della gioventù comunista, il Komsomol. In campo il capitano fu Nikolaj, affiancato come sempre dai fratelli minori, una squadra nella squadra. Bastarono pochi anni per trasformare la scena calcistica sovietica in uno scontro continuo tra lo Spartak di Starostin e la Dinamo (con le “filiali” periferiche) di Beria. Dominarono il campionato, senza esclusione di colpi.
Lo Spartak violò bellamente la legge non scritta di sconfiggere la Dinamo. Un’audacia imperdonabile, agli occhi del sanguinario Beria. Sino ad allora la squadra delle spie doveva trionfare per dimostrare che era invincibile. Spesso, truccando i risultati. L’irruzione dello Spartak ridimensionò la Dinamo. La squadra di Starostin mieteva successi anche all’estero: sebbene il calcio fosse vissuto come sport borghese, piacque a Stalin l’idea di una squadra che vincesse in Occidente. Nel 1937, fu l’apoteosi. Quando la squadra nazionale basca arrivò a Mosca. E mise in riga prima i favoriti di Beria. Poi la Lokomotiv. Ma nel terzo incontro, venne presa a legnate dallo Spartak che vinse per 6 a 2. Con Nicolaj “mister” e tre fratelli in campo: Alexander che è il capitano, affiancato dai più piccoli Andrei e Peter.
La rivalità con la Dinamo nascondeva trame complesse, le sfide calcistiche divennero simbolo di resilienza al controllo totalitaristico dello Stato. Chi tifava Spartak spesso si opponeva al regime. Lo stadio divenne così l’unico luogo in cui ci si sfogava, facendo tiepida opposizione a chi rappresentava il potere dello Stato nei suoi vari tentacoli. Nel biennio 1938-1939 lo Spartak vinse tutto. Il portiere parò dodici rigori su dodici. La “guerra” tra lo Spartak e la Dinamo toccò il culmine nel 1939, quando lo Spartak – in piena corsa per conquistare il campionato e la Coppa dell’Urss – si trovò in semifinale la Dinamo di Tbilisi, la città georgiana dove aveva giocato Beria. Successe di tutto. E di più. Lo Spartak vinse 1-0. La società georgiana ricorse, protestando con la federazione perché riteneva che il gol non fosse regolare. Beria premette sui dirigenti calcistici. Nel frattempo lo Spartak era andato a Leningrado per affrontare in finale lo Stalin, battendolo nettamente. Pochi giorni dopo, i giocatori dello Spartak furono informati che dovevano ripetere la semifinale. Ma anche nel bis lo Spartak ebbe ragione della Dinamo Tblisi, per 3 a 2. Unico caso al mondo nella storia del calcio in cui una semifinale venne rigiocata dopo la finale.
La rappresaglia scontata di Beria si tramutò in un ordine d’arresto per Starostin e i suoi fratelli, accusati di “attività antisovietica”. Vjačeslav Molotov non ebbe il coraggio di approvarla, in quel momento Starostin era troppo popolare e poi c’erano ben altri problemi da affrontare che non la gelosia di Beria. L’invasione nazista della Polonia, lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Il patto con la Germania che traballava e sarebbe stato poi infranto da Adolf Hitler. Beria insistette. E ottenne da Georgij Malenkov quel che Molotov gli aveva rifiutato. Nel marzo del 1942 Starostin, i fratelli e i giocatori dello Spartak furono arrestati e condannati a 10 anni di lavori forzati nei gulag.
Per due anni Starostin viene tenuto nei sotterranei della Lubianka, prima di essere spedito nell’inferno siberiano. Se lo aspettava da tempo. Era stato messo sull’avviso dagli amici del Comitato centrale. Nel 1937, col decreto Nkvd (l’acronimo del famigerato servizio di sicurezza interna) numero 000477, 11 amici e conoscenti dei fratelli Starostin erano finiti nelle mani della polizia segreta. Viktor Ryabokon, giudice e capo della squadra Lokomotiv, fu il primo a “confessare”. Sotto tortura, durante gli interrogatori, rivelò i fratelli Starostin stavano preparando un attacco terroristico sulla Piazza rossa durante la parata. Parole estorte dagli aguzzini. Lo dimostra un dettaglio: tutti gli interrogatori riportati (come si legge nei documenti desecretati) si concludono sempre con la stessa frase: “Durante la parata sulla Piazza rossa, tre gruppi terroristici armati devono agire e poi fuggire. I primi spari avrebbero dovuto essere contro Stalin e poi agli altri. Ma non c’erano armi, qualcuno non è venuto, quindi il tentativo non ha avuto successo”. L’anno dopo, ogni riferimento agli Starostin sparisce. Chi li protesse? Qualcuno avanza il nome del potente Aleksandr Kosarev, segretario del Comitato centrale del Komsomol. Altri ipotizzano addirittura un atto di clemenza di Beria, succeduto a Nikolai Yezhov, fino alla fine del 1937 capo dell’Nkvd, arrestato e giustiziato.
Starostin stesso ha raccontato più volte la sua drammatica storia. Riporto ciò che disse a Repubblica nel 1992 (Alberto Flores d’Arcais): “Durante i numerosi interrogatori alla Lubianka venni così a sapere che ero un pericoloso terrorista, che facevo parte di un gruppo sovversivo che voleva uccidere Stalin, di cui facevano parte anche i miei tre fratelli. Pochi giorni prima del processo mi diedero da firmare una dichiarazione di colpevolezza, minacciando gravi conseguenze per mia moglie e mia figlia. Firmai. Mi condannarono a 10 anni ed era come se avessero riconosciuto la mia innocenza. Era una pena ridicola, per atti di terrorismo allora non si sfuggiva alla fucilazione. Capii ben presto che la mia popolarità mi avrebbe salvato la vita. Uscire vivi dai campi era quasi impossibile, ma i Gulag erano anche una sorta di grande ‘Borsa del lavoro’, lì si reclutava manodopera per tutti gli usi. La mia fortuna fu che il ‘padrone’ dei gulag dell’estremo oriente, il generale del Kgb Goglize, era un grande tifoso. E così mi propose di allenare una sua squadra, una delle tante Dinamo locali. Proprio una Dinamo, bella ironia della sorte. Se lo avesse saputo Beria… ma, non so come, riuscirono a tenerglielo nascosto”.
Nel campo di Kabarovsk, ai confini con la Cina, Starostin venne a sapere che la guerra era finita, che il nazismo era stato sconfitto. Ma lui continuava a essere un prigioniero, trattato come un “traditore della patria”. Una mattina lo svegliano. Gli dicono che deve rispondere al telefono. Una chiamata da Mosca. Di Vassilj Stalin: “Credevo di sognare, invece era proprio il figlio di Stalin. Mi disse che al più vicino aeroporto militare c’era un aereo che mi avrebbe riportato a Mosca. Vassilj era allora il comandante delle forze aeree militari di Mosca”. Starostin gli ricorda che è un condannato “-16”, cioè che le 16 più importanti città dell’Urss gli erano vietate per sempre. Quindi, non poteva rientrare a Mosca. Il figlio di Stalin gli rispose: “Vi aspetto”. E basta. Gli restituirono la propiska (il permesso di residenza) per Mosca. In cambio, avrebbe dovuto allenare la squadra Vvs, quella dell’Aviazione. Tornò a casa per scoprire che gliene avevano destinato solo otto metri quadrati.
Pochi giorni dopo, bussarono ancora alla sua porta. Come la prima volta del marzo 1942, si presentarono due colonnelli del Kgb. Gli imposero di lasciare Mosca entro 24 ore. Portato sul treno, scoprì alla fermata successiva che nello scompartimento accanto c’era un uomo di Vassilj Stalin: “Ho l’ordine di riportarla a Mosca”. “Ero diventato parte della guerra personale che Beria e il figlio di Stalin si stavano combattendo”. Vassilj lo vuole a casa sua, per meglio proteggerlo: “Praticamente eravamo in simbiosi, qualche volta dormimmo anche nello stesso letto. Lui non si addormentava prima di aver controllato meticolosamente la pistola che aveva sotto il cuscino. Un giorno lo chiamarono a Pitzunda, una delle residenze estive del padre sul Mar Nero. Mi disse che c’era anche Beria, ma di non preoccuparmi”.
Per molti giorni Stalin junior non si fa sentire. Allora è Starostin che alza il telefono e lo chiama: “Gli dissi che forse era meglio che ‘accettassi l’invito’ del Kgb a tornare nel gulag, rispose che anche lui pensava fosse la cosa migliore”. Va alla Lubjanka. Di lì, lo rispediscono in estremo oriente. Solo nel 1954, dopo la morte di Stalin e il processo a Beria, lo liberano. Nikita Krusciov lo riabilita e gli riconsegna l’Ordine di Lenin che gli era stato tolto in quanto “traditore”. Il gioco del calcio è stato anche questo. Russia 2018 è lo scrigno di un triste, sventurato passato.